“La locanda” di Vincenzo Zonno


 

Martedì 4

…non ho mai avuto l’esigenza di scrivere e non so perché ora ho questo forte impulso. Probabilmente gli ultimi avvenimenti e questa solitudine forzata mi stanno misurando mettendo alla prova le mie emozioni più deboli. Sono arrivato in questa locanda alcuni giorni fa convinto che mi sarei fermato solo un giorno, ma sono ancora qui. Quella mattina pioveva ed ero completamente zuppo. Quando vidi l’insegna “Osteria degli Artisti” pensai che fosse un luogo dove ci si poteva solo rifocillare, ma scoprii presto che non era così. Via dell’Inferno numero 3… mah!! Che razza di nome da dare a una via…
L’uomo che mi accolse mi chiese subito se avevo bisogno di una stanza e io pensai bene di approfittarne per rimettermi in sesto, fare un bagno caldo e riposarmi. La notte mi salì la febbre e non ricordo molto, so solo che stetti tre giorni a letto e che, di tanto in tanto, appariva del cibo sul mio comodino. Buono. Chiunque si occupi della cucina sa il fatto suo, non c’è dubbio.
Stamattina mi sono svegliato con una certa euforia. Forse il fatto che la febbre sia passata, e che il mio appetito sia divenuto importante, ha cambiato molte cose. Fuori piove ancora. Non è cambiato niente nel clima degli ultimi giorni. Sento il ticchettio continuo sul vetro della mia finestra e un po’ m’infastidisce.
Ero tanto allegro stamane. Dopo essermi vestito, sono andato dabbasso nella sala comune. Tutto è iniziato in quel momento. Sì, questa strana sensazione. Quando ho conosciuto il capitano Carl Vreel, la signora Luisa Slavina e il Signor Teek., così si è presentato: Signor Teek, e l’ha fatto con una certa presunzione.
“Osteria degli Artisti”. Mai nome fu più azzeccato…

Il mondo è un luogo con delle precise delimitazioni. Può essere la somma di tutte le terre emerse e i mari, un continente, una città, ma anche una semplice locanda, con muri definiti dai quali non si sfugge per il clima inclemente. Quanto più ti si stringono attorno, questi muri, tanto più si acuiscono i sensi e la percezione fa un salto di qualità. Tutto inizia ad avere un fascino e una bellezza che genera emozioni dei più svariati tipi e, improvvisamente, ti scopri debole, forte, allegro, triste o ai limiti della pazzia, o tutto insieme. Contemporaneamente.

 

Giovedì 6 F.

…questa mattina non ero molto in forma. La notte avevo fatto dei sogni strani. In realtà, anche felici, se vogliamo, ma si erano ripetuti in modo ossessivo, tant’è che dall’allegria ero passato al fastidio, poi al malessere fino alla nausea. Una notte lunghissima. Sarà che ho ancora un po’ di febbre? Niente colazione stamane, solo un caffè che mi ha aumentato i battiti del cuore e una sorta di agitazione ha preso il controllo di ogni mia funzione vitale. Quando assapori un dolce, lo sai che è dolce perché è una sensazione che conosci bene. È lì, sulla lingua. Cioè, non è davvero chiaro dove sia, ma la riconosci e ne godi l’effetto. Mentre una sorta di malore mentale prende possesso del tuo corpo, il cuore inizia a correre, i suoni generano echi nella mente e provi un sottile gusto dolciastro che proviene dalla bocca dello stomaco. Sì, non saprei descriverlo in altro modo: una sensazione dolciastra che ti sale dal torace fin sopra gola. Si diffonde riempiendo la testa di una gelatina nera. Una nuvola che macchia i pensieri.
Il signor Teek, in tarda mattinata, mi ha invitato a passare del tempo assieme a lui. È un uomo simpatico, ma parla davvero poco. Vive in mansarda e lì ha il suo laboratorio. È un pittore. Non avevo mai visto un pittore all’opera. Mi immaginavo un uomo con un buffo cappello, con un grosso pennello in una mano e una tavolozza piena di colori nell’altra. Me lo vedevo a meditare perplesso in piedi di fronte a un cavalletto con sopra una grande tela. Il signor Teek non ce l’ha neanche una tavolozza. Appena entrato in mansarda fui assalito da odori sconosciuti e affascinanti. L’olio di lino è la sostanza più invadente, te la senti addosso e il suo odore ti addomestica i sensi; poi vi sono vari diluenti, tutti dall’aroma dolciastro, e ti sembra di sentirne il sapore. Questi ultimi potrebbero avere un effetto inebriante sull’essere umano.
Teek parla poco e sorseggia un brandy, che gli dura di certo molte ore. Porta un paio di pantaloni a quadrettoni e un maglione bianco di lana. E non c’è una sola macchia di colore sui suoi vestiti. È seduto e la sua tela sta sul tavolo. Usa un pennello piccolissimo e il colore lo preleva direttamente dal tubetto. Ha di fronte a sé quattro tubetti aperti che scambia in continuazione. Utilizza una lampada giallastra che illumina il suo lavoro mentre, tutt’intorno, c’è penombra e s’intravede appena il caos di quadri appesi, poggiati sui muri, accatastati o impilati dappertutto.
È un uomo strano Teek. A colazione mi ha detto: «Vieni da me che parliamo un po’ mentre lavoro». E poi invece non ha parlato quasi per niente. Però, non è che non comunichi, qualcosa la dice e guarda, riflette, poi torna nel suo mondo e tu capisci tutto. Fa dei bei quadri Teek. Dipinge tanti personaggi e oggetti buttati a caso nel nulla o in ambienti sconosciuti. Tu guardi un suo quadro e ti catapulti in un mondo improbabile nella nostra realtà e ascolti una musica. Sì, la sensazione è quella: i colori scatenano una musica diretta nel cervello.

 

Venerdì 7 F.

…non ho mangiato, stasera non ho fame. C’è un pensiero che mi tormenta: non riesco a ricordare qual è il mio lavoro. Cosa faccio per vivere? Dapprima avevo pensato che la malattia mi avesse, in qualche modo, procurato delle amnesie, ma non è così. Io ricordo tutto tranne il mio lavoro. Ma ce l’ho un lavoro? Ho molti soldi quindi dovrei averlo…
Tutto si aggiusterà, sì.
Fuori piove, è buio e la strada dalla mia finestra si vede appena. Giù c’è un’illuminazione giallastra, e ricordo che la pavimentazione era composta di grossi e rotondi ciottoli affiancati. Roba da spezzarsi le caviglie.
Non ho fame. Andrò a dormire e ci penserò domani mattina…

Uno scopo. Tutti, nessuno escluso, hanno bisogno di uno scopo. Ciò che rende un uomo davvero libero è l’avere un fine: qualcosa che impegni il pensiero, il fisico o tutti e due. Piccolo o grande che sia, un progetto portato avanti per l’intera vita riempie a prescindere che si riesca o no nell’impresa. L’uomo che guarda dietro di sé, il proprio lavoro, sarà appagato e soddisfatto. Si nutrirà della sofferenza accumulata e perché no? Del proprio fallimento. Del resto, non è spesso il percorrere la strada per raggiungere la meta che rende affascinante la meta stessa? L’avventura più catastrofica, l’esperienza più amara, acquista un dolce sapore con il passar degli anni. E la mente amalgama i ricordi in modo che in vecchiaia tutto ci appaia con un’aura magica, nostalgica e gratificante.

 

Lunedì 10 F.

…quando giunsi, molti giorni fa, mi accolse un uomo di mezz’età con pochi capelli e un sorriso finto. Una specie di maggiordomo, forse il padrone di questo luogo. Che fine ha fatto? L’ho visto solo una volta quella sera, poi è sparito. Del resto non ho mai visto nessuna cameriera o cuoca. Eppure la mia stanza è regolarmente pulita e, a orari stabiliti e rigorosi, nella sala comune appaiono pietanze di ogni tipo poggiate su tavolini. A noi clienti è riservato solo l’onere, o forse l’onore, di servirci a vicenda.
Oggi abbiamo scambiato alcune chiacchiere a colazione. Eravamo in tre. Il signor Teek è partito per alcuni giorni per andare a trovare la propria sorella che non sta molto bene. Io l’ho visto ieri, alcune ore prima che andasse via, e mi ha chiesto di salutare la signora Luisa. Di certo c’è qualcosa fra questi due. Aveva gli occhi lucidi quando me l’ha detto. Chiacchierando ho scoperto che Luisa ama scrivere poemi e, neanche a dirlo, Vreel è un musicista. Quest’ultimo passa tutto il suo tempo in cantina e suona lo xilofono. A quanto mi ha raccontato ne ha tre, e uno è lungo più di due metri. Ma cosa spinge un uomo a suonare uno xilofono? Che cosa strana…
Si può capire facilmente l’amore per la musica: un uomo si avvicina a una chitarra, a un piano, a volte a un violino o anche a uno strumento a fiato, ma come ci si può avvicinare a uno xilofono e innamorarsene?
Mi ha invitato ad ascoltare qualcosa e andrò a trovarlo giù in cantina. Non me lo immagino a torcersi davanti al suo strumento. È un uomo grasso e rossiccio, sembra in preda a una guerra personale contro il proprio colesterolo e lo immagino a soccombere da un momento all’altro per un attacco cardiaco. Lui non è di quest’avviso. Accende una sigaretta dopo l’altra ed è costantemente inseguito da una nuvola di fumo. Decanta con tale passione le sue sigarette egiziane che mi è venuta voglia di fumarne una. Non ho mai fumato, ma credo che lo farò una di queste sere. Magari mentre ascolto la sua musica. Stasera no. Stasera prenderò un tè assieme a Luisa Slavina nella sua camera. È una donna di una cinquantina di anni. Deve essere stata una bella ragazza da giovane, ma ora pare affaticata dalla vita e il suo viso è fin troppo segnato dall’età. È magra e alta, garbata in tutte le sue movenze. Parla piano e dà una certa enfasi a tutto ciò che dice; non dispiace ascoltarla anche se ti sta solo chiedendo di passarle qualcosa. Trascorrerò una serata piacevole o almeno credo. Mi basterebbe dar pace a quest’ansia che mi ha preso da circa un’ora e che mi spinge ogni secondo a fuggire da qualcosa o qualcuno? Non so.
Correrei via per il resto della mia vit,a fagocitando a bocca aperta tutta quest’acqua che si abbatte dal cielo. Respirando la pioggia

Non tutti i movimenti delle pupille sono determinati da una cosciente volontà. Gli occhi vedono ciò che la mente non vede. Questo ci verrebbe da pensare di getto con grande ignoranza. No, non è così. La mente vede, assimila e registra. Eppure tantissimi oggetti, azioni e accadimenti, passano attraverso di noi senza che ne abbiamo una chiara percezione. A volte non vi è proprio nulla oltre all’ovvio e il quotidiano e poi, all’improvviso, qualcosa salta fuori e ci stupisce. Dopo qualche minuto, ore, giorni. A volte dopo intere generazioni torna ciò è accaduto a qualche nostro lontano bisnonno, che l’ha memorizzato nella sua personale banca dati biologica, e l’ha trasformato in una caratteristica dell’istinto e fissata sul proprio DNA.
Karma sapeva con certezza che a uccidere l’imperatrice Cixi non furono cause naturali ma una determinata e spietata azione magica del “Grande Tredicesimo”, il penultimo Dalai Lama del Tibet. Come lo sapeva? Lei se lo era chiesto per tutta la vita senza trovare una risposta. Lo sapeva, punto. A dirla tutta, solo per caso aveva scoperto che i protagonisti di questa storia, che vagavano nei suoi pensieri, erano realmente esistiti e avevano avuto anche un relativo prestigio.

 

Martedì 11 F.

…non capisco come sia possibile. Continuo a pensarci e non ci credo. Ora dovrei andare a pranzo ma me ne manca il coraggio. So che incontrerò la signora Luisa e provo una grande vergogna. Com’è possibile che io abbia passato la notte con lei? Non era mia intenzione, non avevo mai fatto un pensiero di questo tipo e l’enormità di anni che ci dividono non ci dava nessuna possibilità, e nessun dubbio. Eppure, stamattina mi sono svegliato nel suo letto e lei dormiva accanto a me dopo aver passato la notte più appassionante degli ultimi dieci anni. Così mi ha detto.
Non so, forse sono fuggito, non ricordo bene. Ma la notte la ricordo, sì, ricordo anche la serata. Abbiamo bevuto il tè e parlato tanto. In realtà parlava quasi esclusivamente lei. Mi ha raccontato dei suoi due mariti, del fatto che non aveva potuto avere figli e della poesia come via di fuga alle sue angosce. Poi mi ha regalato un suo poema e me l’ha letto, anzi, recitato con una tale passione che ne sono stato rapito. È stato questo che mi ha drogato i sensi, sì, dopo siamo finiti a fare l’amore e… è stata l’esperienza amorosa più bella della mia vita.
«Tu che vivi ancora… e gli altri invecchiano» mi disse dal nulla.
Pensavo che si fosse rivolta a me per qualcosa che avevo fatto. Recitava. Aveva gli occhi lucidi e dolci e la sua pelle si era distesa e ne sentivo un profumo delicato, penetrante.
«Mente stanca, e stanca son io che t’ascolto… Cos’è che ricorda il cielo della mia storia? Della mia infinita vita a rimirare infiniti scenari e brevi incontri…»
Iniziai a provare un particolare trasporto. Sì, quella donna la sentivo sempre più vicina. La volevo, ma solo accanto. Un po’ più vicina e sempre di più a ogni secondo che l’ascoltavo.
«Oh… potessi scegliere i miei ricordi… li terrei tutti! Cos’è che mi percuote? Sciocche pretese… Inutili pensieri… Falsi compromessi».
Ieri notte abbiamo fatto l’amore per ore. Ho sentito i flebili suoni della sua passione e pareva ancora poesia scaturire dalla sua bocca, dal suo corpo. Ho vissuto i suoi sussulti e l’ho creduta parte di me come mai mi era accaduto.
Ora ho il terrore di incontrarla, il terrore…
Che la felicità sia solo l’assenza di un male? Se così fosse, tutto sarebbe lecito.

 

Martedì 11 F.

…non c’era. Che fine ha fatto? Forse anche lei ha provato vergogna per la nostra notte rubata?
Sono stanco, ma non è la sola fatica fisica. Non basterà questa notte di sonno a rigenerarmi. Domani vado via. Mi sento inutile e sporco dentro e ho bisogno di fuggire. Sì, sempre questa sensazione soffocante che mi vuole via da ogni luogo e ogni situazione. Sento un odore acre insistente e appiccicoso e ho una patina oscura davanti agli occhi.
Stasera ho ascoltato la musica di Vreel: una valanga di suoni che ti fanno vibrare lo stomaco. La sensazione è forte e non so se sia piacevole o no, ma ti rimane dentro a lungo. Non avrei mai detto che quell’uomo pingue e lento fosse così sciolto davanti al suo strumento. Sembrava volasse con le sue bacchette in mano. Percuoteva quelle strisce di metallo generando emozioni dirette. C’era musica ad ascoltarlo, a vederlo, non so proprio come spiegarlo.
La cantina era buia e puzzava di muffa. C’erano vecchi materassi attaccati alle pareti e sul soffitto e si sentiva il trotterellare dei topi che avevano fatto il nido ovunque, fra le stoffe e le spugne. L’enorme xilofono che Vreel suonava era elettrificato e ronzava appena lo accendeva.
Quando non era percosso dalle sue bacchette, mi dava un grande fastidio quel ronzio, ma quando iniziava ogni nuovo brano, era come piombare fra le acque in caduta libera di una cascata, fra le rapide di un fiume, su un cavallo di una giostra che ha perso il controllo e ruota a una velocità che prima o poi la farà esplodere.
Vreel sudava copioso e il fumo della sigaretta che si ostinava a schiacciare fra i denti, gli tormentava gli occhi. Tant’è che li aveva chiusi, ma ciò non gli impediva comunque un’esecuzione impeccabile.
Saranno tutte queste emozioni che mi avranno consumato l’anima? So solo che sono arrivato al limite e non posso più stare fermo in questo limbo. È ora che io vada anche se continua insistente a ticchettare il vetro e la strada sotto questa lenta e incessante pioggia ipnotica. Il lampione giallo, che illumina appena fuori, frigge e sbuffa e crea una nuvoletta di vapore. Continua a piovere, ma io devo andare.

 

Sara era appena rientrata in casa e si era seduta di fronte alla scrivania. Era stanca ma soddisfatta e non le capitava da molto tempo. Lasciò cadere la borsa senza curarsi di dove sarebbe atterrata e tolse la giacca lanciandola dietro di sé. Accese la lampada e spostò alcuni fogli prima di accendere il PC, poi si infilò ambedue le mani fra le cosce e si rilassò sullo schienale attendendo.
Sullo stesso tavolo, accanto alla tastiera, vi era ancora la grande busta gialla piena di fogli e articoli strappati da riviste o libri che le era stata consegnata da un notaio alcune sere prima. Quella sera, dopo essere uscita dallo studio del professionista, l’aveva guardata soprappensiero e mentre tornava a casa a piedi, ne aveva tirato fuori una lettera e l’aveva letta con superficialità. Ora osservava tutto il plico e rammentava alcune frasi di quella missiva realizzando che, forse quelle non erano lettere come aveva creduto fin dall’inizio, ma delle memorie che l’autore non aveva indirizzato a nessuno, se non a sé stesso. C’era una vita dietro quelle frasi e ora cercava di immaginare il viso dell’uomo che le aveva scritte.
Prese la busta e la rigirò un po’ fra le dita, poi vi sbirciò un attimo dentro. Infine, dopo averla pesata con un curioso gesto della mano, la poggiò sulle proprie gambe e si perse in altri pensieri. Poggiò le dita sulla tastiera e iniziò alcuni lavori che aveva lasciato indietro. In quei giorni, assieme al plico giallo, le erano cascate addosso, come una doccia rigenerante, anche delle pratiche di un’eredità che la rendevano un po’ più ricca. Appena in tempo per tirarla fuori dai guai.
– Che strana combinazione– aveva pensato in quel momento – un lontano cugino di terzo grado che non ha altri parenti che me. E io non so neanche chi sia. Un uomo morto a novant’anni, in completa solitudine di certo.
Con le sue lunghe unghie rosso carminio grattava il bordo della busta, producendo un rumore fastidioso e con l’altra mano editava il manoscritto di un cuoco che la casa editoriale dove lavorava le aveva commissionato. Nel frattempo, il sole era quasi sparito dalla strada e i lampioni strattonavano l’aria con i primi bagliori intermittenti. Lavorò a lungo e si fermò solo perché sentì i morsi della fame farsi sempre più frequenti.
In tarda serata, dopo aver cenato, sedette di nuovo davanti al suo lavoro ma, annoiata e stanca, riprese in mano il plico e l’aprì. Un mazzetto di fogli erano legati assieme da un laccetto di lino. Il primo si era staccato. Ricordò essere quello che aveva già letto. L’aveva strappato lei. Lo mise assieme agli altri e aprì il laccetto. Quindi iniziò a leggere riprendendo dall’inizio.
Una lettera dopo l’altra passò il tempo e una nuova vita prese forma nella sua immaginazione. Fra le pagine vi erano alcuni articoli prelevati da pezzi di giornale, li lesse nella giusta sequenza senza capirne il nesso. Il tempo trascorse e, dopo aver consumato la prima decina di pagine, realizzò di essere davvero provata e stanca e di non aver più la capacità di leggere altro. Ripose tutto sul tavolo poi si adagiò su una poltrona a ridosso alla finestra e guardò per breve tempo i lampioni, che ormai caldi inondavano la strada di una forte luce rassicurante.
Si addormentò.
In piena notte, dopo solo alcune ore, si svegliò scossa e con il respiro affannoso. Sì alzò e vagò un po’ per la casa, sparpagliando i vestiti bagnati che aveva avuto indosso durante quelle ore di sonno. L’avevano fatta sudare copiosamente.
Colpa di questi – pensò.
Mise una vestaglia e legò i capelli, accrocchiandoli sul vertice del capo, e si sforzò di cercare fra le pieghe dei propri sogni l’incubo che le aveva indotto quello stato d’ansia. Ma non ci riuscì. Infine riprese il controllo di sé cercandolo a forza e tornò a sedersi di fronte alla scrivania e con calma riacquistò una certa tranquillità.
Il PC era ancora acceso e non ricordava di averlo lasciato così. Distratta guardò il plico giallo e a seguire quei pochi fogli che aveva letto prima di addormentarsi.
– Che siano stati questi? –  Li prese e subito dopo li ributtò sul tavolo. – Mi avranno condizionato il sonno e ho davvero lavorato molto oggi.
Si rimboccò le maniche della vestaglia e poggiò ambedue le mani sulla tastiera, ma non aprì il manoscritto che stava lavorando. Le dita rimasero ferme e non scrisse nulla.
– Caro cugino sconosciuto… mi hai fatto un gran favore con i tuoi soldi, ma chissà cosa volevi lasciare al mondo e a me. Che storie ti sei inventato?
Rimase a lungo a riflettere su questi pensieri e ripercorse alcune frasi delle lettere rigirandole nel cervello e generando dubbi.
– Via dell’Inferno. Ma esisterà una via con questo nome? Chissà dov’è?
La sua testa continuava a riempirsi di domande e più pensava e più ne nascevano. Provava una sorta di disagio. C’era davvero qualcosa che valeva la pena di sapere in più di questo suo lontano parente. Digitò il nome della via, che aveva letto in quelle pagine, e centinaia di voci comparvero sullo schermo.
– Così tante?-  Esclamò stupita.
Cliccò qualche link e a seguire si mise a scorrere alcune pagine senza trovare risultati che la incuriosissero. Prese i fogli accanto alla tastiera e lesse le prime righe dello scritto, quindi lo riappoggiò, lasciandosi cadere sullo schienale.
– Ma quante vie dell’Inferno ci sono? Uhm… in quante di queste ci sarà un albergo?
Provò a digitare il nome della locanda e a seguire quello della via, infine la sua ricerca produsse un risultato.
– E questo?
Fra le prime voci del motore di ricerca vi era un articolo di giornale riguardante un accadimento del passato che, con il solo titolo, invogliava alla lettura. Un mistero insoluto.
“L’inferno in via dell’Inferno.”
Un alito d’aria gelida le lambì le gambe e un brivido salì lungo le tempie facendole scuotere il capo. Ebbe l’impressione di udire un ronzio sottile, che piano le si avvicinava. Le mani le tremarono e le spostò di colpo dalla tastiera, ma avvicinò il viso allo schermo e lesse con attenzione mentre alcune gocce percorsero le sue tempie.
Sessanta anni addietro, in una via con quel nome stravagante che nulla aveva a che fare con angeli, demoni e roba di questo tipo, si era consumato un orrore che aveva fatto discutere per molti anni a seguire. Il signor Carmine degli Artisti, direttore e proprietario dell’omonima locanda, dopo giorni di un’inusuale e improvvisa assenza di tre dei suoi inquilini, scardinava le porte delle loro camere e trovava le spoglie orrendamente trucidate dei tre malcapitati.
Harold Teek, talentuoso ma semisconosciuto pittore naif, fu trovato morto soffocato da un cospicuo quantitativo di vernice che qualcuno gli aveva versato in gola. Lo aveva fatto dopo averlo narcotizzato, di certo con del diluente. L’uomo era stato trovato nel suo armadio accasciato fra gli abiti stipati. L’assassino, prima di nasconderlo, aveva voluto infierire oltremodo sul suo corpo inerme imbrattandolo in ogni sua parte con i vari colori che aveva trovato nella stessa mansarda. Il grottesco cadavere pareva un orrifico personaggio dei fumetti abbellito come un arcobaleno.
Luisa Slavina, l’altra cliente della locanda, era stata ritrovata distesa sul proprio letto con lo sguardo vitreo in una smorfia sofferente. Nuda, aveva vivaci lividi sul collo e, in maniera più tenue, su tutto il resto del corpo. S’intuiva essere stata soffocata a mani nude da qualcuno che l’aveva afferrata alle spalle. Dopo la morte, l’assassino aveva più volte abusato delle sue misere spoglie. Le poesie e gli scritti della donna, erano sparpagliati dappertutto. Qualcuno ancora svolazzava strattonato da fiotti d’aria che un ventilatore, ancora funzionante, spingeva come una tosse afona nella stanza. Erano stropicciati, strappati e sporchi di probabili sostanze organiche.
Infine Carl Vreel, allegro ed estroverso musicista, era morto anche lui in conseguenza alla ferita infertagli da una bacchetta di legno che gli aveva trapassato il collo. L’omicida, dopo la morte della sua vittima, aveva voluto rincarare la dose e gli aveva conficcato una bacchetta di legno nella testa. Gli passava le tempie da parte a parte. Era rovinata e scheggiata al vertice, come se vi avessero picchiato sopra con un oggetto molto pesante.
L’autore di questi crimini non era stato scovato e si era potuto solo congetturare sull’accaduto. La locanda aveva avuto pochi clienti durante tutto l’anno, e solo alcuni inservienti erano indispensabili alla sua conduzione. Tutti avevano alibi inattaccabili e scarsi motivi che inducessero a renderli sospettabili. Un solo strano e solitario personaggio diede da pensare e fu considerato il più probabile omicida.
Il direttore e i vari lavoranti dell’albergo parlarono e descrissero a lungo un quarto ospitedi quella casa, che andò via alcuni giorni prima del ritrovamento delle vittime.
– Era un personaggio strano, introverso, venuto dal nulla e nel nulla sparito –  disse il signor Carmine degli Artisti.
– Pareva che per lui noi non esistessimo –  commentò una cameriera.
Quell’uomo era sparito e di lui si erano perse le tracce. Il mistero era rimasto irrisolto e anche la gente, con il passare del tempo, aveva dimenticato.
Sara aveva letto l’articolo ed era rimasta in un limbo di pensieri. S’alzò dalla sedia ed entrò in bagno, si lavò i denti e tolse la vestaglia, indossando della nuova biancheria intima e poi il pigiama. Entrò nella camera da letto e sistemò le lenzuola e coperta, poi sbatté un paio di volte il cuscino e, dopo averlo posato sul materasso, chiuse una sola persiana e lasciò aperta l’altra. Tornò nello studio e spense il PC tirando via con forza la spina dal muro, quindi diede un’altra rapida occhiata al plico giallo e uscì dalla stanza spegnendo la luce.
Tornò in bagno e si riguardò allo specchio. Si calò pigiama e gli slip con una sola mano e sedette sulla tazza.
– Ho letto solo una decina di pagine – pensò – e lì ce ne saranno almeno un centinaio…


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