Le bottiglie ormai vuote sono sul bancone del bar; ne prendo una e li guardo. Sono come me, impasticcati e rabbiosi. ‒ Si va?
Non aspetto risposta, mi alzo. So che verranno con me.
Faremo pulizia: la città è infestata di immigrati e puttane, tossici e clochard.
Mi basta vederli e la rabbia mi cresce dentro tanto da togliermi il fiato.
Bastardi.
In moto, casco integrale. Nessuno ti riconosce. Le bottiglie di birra, spaccate, funzionano alla grande. Le spranghe sarebbero meglio, anche le catene, ma se te le trovano ti mettono dentro. Mettono dentro te che cerchi di fare pulizia di tutte queste merde, bestie schifose che la infestano.
Le conosco queste merde. Mio padre era uno di loro. Tossico che ha messo incinta mia madre e quando avevo cinque anni è scomparso.
Non ne sento la mancanza. Mai sentita.
Lei ha pianto per un po’, poi si è messa con un altro. Poi un altro e un altro ancora. Quando è crepata le ho trovato fra i documenti ancora una foto di quello: bel quadretto di famiglia. Tossico, puttana e io con loro. Sorridevo. Ero ancora scemo.
È inverno, tira tramontana che sposta cartacce e rifiuti. Freddo non ne ho, fra birra e pasticche sono invincibile. Ma i bastardi avranno freddo e si sbatteranno negli angoli riparati da cartoni puzzolenti.
Fra Galleria Mazzini e il Carlo Felice. Si sistemano come fosse casa loro.
Puzzano.
E questa notte andremo là a fare pulizia.
Siamo in quattro.
Una bella picchiata in gruppo: si fermano le moto, ci si avvicina facendo dondolare le bottiglie di birra tenendole per i colli, le si spaccano contro un muro e si avanza.
A volte sono così ubriachi o strafatti o insonnoliti che neppure si accorgono di noi e si deve fare un po’ di chiasso o gridare perché ci sentano.
Non è divertente picchiarli. Si fa perché si deve.
Divertente è vedere la paura sulle loro facce, sentirla. Qualcuno si piscia addosso. No, non è l’odore vecchio… È di quella appena fatta.
Quella paura, la paura di quello che faremo.
Picchiare, ferire, anche appiccare fuoco, perché il fuoco pulisce. Niente pulisce come una bella fiammata.
Abbiamo fermato le moto. Siamo smontati. Caschi integrali.
La tramontana alza cartacce e scuote qualche imposta mal accostata. Anche i cartelloni del teatro.
Ci avviciniamo. Ormai è un lavoro che conosciamo alla perfezione.
Io al centro, due miei soci ai lati, il quarto dietro a controllare che non arrivi gente a impicciarsi.
Sollevo la visiera del casco. Lo faccio sempre. Voglio che mi vedano bene in faccia, non sono un vigliacco.
Spacco la mia bottiglia e avanzo verso i rifiuti. Sono tanto aggruppati che neppure si capisce quanti sono.
Uno. Solo. Gli altri ammassi sono i sacchi neri della spazzatura.
‒ È uno soltanto, non vale la fatica ‒ commenta quello alla mia destra. ‒ Meglio cercare un bottino più divertente.
‒ Andate voi. Io mi faccio questo.
Sento i loro passi che si allontanano. Il rombo delle moto.
Avanzo.
Il freddo ormai non lo sento più. Neppure la fame. L’ultimo pasto caldo l’ho mangiato ieri. O l’altro ieri? Tutti i giorni sono uguali. Svegliarsi e aspettare che venga sera. Addormentarsi in un angolo in attesa di un altro giorno.
Da solo.
Anche se è pericoloso. Stando insieme si ha meno freddo e ci si difende.
Freddo non ne sento. E perché difendermi?
Se sopravvivo è perché ho ancora un desiderio. La mia vita l’ho buttata tanti anni fa… Droga. Ma ne ero uscito e lavoravo. Poi hanno ridotto il personale e sono stato uno dei primi a ricevere la lettera.
Chi assumeva uno come me? Nessuno. Un giorno sono andato via portandomi dietro i vestiti che avevo addosso e una foto.
Vorrei chiedergli perdono; non ottenerlo, soltanto poterlo chiedere.
Avanzo deciso con la mia arma in mano. È sveglio. Alza il viso. C’è abbastanza luce da vedergli la paura in faccia.
Alzo la bottiglia spaccata e la abbasso con forza.
Ora sul suo viso c’è sangue.
Dovrebbe esserci paura, invece c’è qualcosa che non capisco.
Sollevo la mia arma per colpire ancora e mi fermo.
Faccio un passo indietro, mentre l’uomo ferito continua a guardarmi in quello strano modo incomprensibile.
Alzo di nuovo la mano per colpire ancora, ma prima che possa farlo lui scivola a terra.
Non so cosa sta succedendo ma mi inginocchio accanto a quel corpo. Fra le dita ha una foto consumata. Ci siamo soltanto noi due: né vento né puzza né freddo.
Tocco la foto. Ne ho una uguale. Non l’ho mai buttata per poterci sputare sopra ogni volta che la rabbia mi chiudeva la gola e non potevo sfogarmi in altro modo.
Sono in ginocchio.
E sento la sua voce, solo invecchiata: ‒ Perdonami, figlio mio.
Resto in ginocchio mentre la bestia che ho dentro scivola via.