"Notti di Luna Iena" di Fabio Mundadori


 

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Ciòlabbarca lo chiamavano nel giro.
La barca per lui era un vanto, se l’era fatta con la cresta sistematica ricavata tagliando le dosi spacciate fuori dai locali notturni e dalle scuole a piccoli clienti abituali: ragazzini, adolescenti, consumatori occasionali da discoteca.
A causa sua troppo spesso madri, padri, fidanzati si erano trovati radunati attorno al tavolo di un obitorio per il riconoscimento delle vittime causate dalle sostanze che smerciava.
Per riconoscere Ciòlabbarca erano state necessarie le impronte digitali registrate nel database della polizia.
Al tavolo dell’obitorio per lui nessun parente, solo il dottor De Masi intento a decifrare quel rebus  di resti umani.
Alzò gli occhi dallo sterno divelto e svuotato degli organi interni: cuore e polmoni a brandelli avevano dovuto raccoglierli dal selciato di una stradina del centro storico di Sperlonga, il piccolo paese abbarbicato sulle rocce prospicenti sulla costa tra San Felice Circeo e Gaeta.
Un pezzo di fegato era stato usato dall’assassino per scrivere la propria firma su di un muro: LUNA PIENA con una croce a cancellare la P.
Per il resto, il corpo presentava gli arti completamente slogati e le vertebre distaccate l’una dall’altra.
Impressi sul volto terrore, dolore e, sulla fronte, una piccola traccia di grasso rappresentava un altro enigma.
No non era grasso, passò un dito sulla sostanza: era olio.

Era l’Olio Santo che concedeva ai peccatori la remota speranza di liberarsi dalle loro colpe efferate prima di morire.
Comminare loro l’Estrema Unzione immediatamente prima della morte era tutto ciò che poteva e, secondo la regola, doveva fare.
L’ultimo ci aveva messo un po’a parlare e lui era stato costretto a sottoporlo al supplizio della corda per ottenere le risposte che cercava.
Per essere uno scagnozzo era fin troppo fedele al proprio capo, ma non esiste fede che non si pieghi di fronte a quella per il Signore.
Poi certo aveva dovuto eliminarlo, non poteva permettere che attraverso quella feccia la giustizia terrena lo punisse per l’operato che lui, servo di una giustizia superiore, stava mettendo in atto.

Villa Carini dominava l’intera vallata ai piedi di Sonnino.
Sotto uliveti di piante centenarie si alternavano a boschi e pareti di roccia brulla che l’indaco del crepuscolo trasformava in una scenografia di bosco incantato.
Un altro dei suoi uomini era stato trovato morto, seviziato in un modo che nemmeno lui, Ernesto Carini a capo della famiglia che da generazioni gestiva la malavita locale, sarebbe riuscito a immaginare.
E ora anche il suo unico figlio era scomparso dalla circolazione.
Seduto sull’antica poltrona rivestita di cuoio, sentiva l’inquietudine aderire alla sua schiena, non tanto per la sorte del figlio o dei suoi uomini: erano solo pezzi di una partita a scacchi dove c’erano molti pedoni e un solo re, piuttosto non riusciva a immaginare chi avesse tanto in spregio la propria vita per attaccarlo in maniera così diretta.
Nicola “Nick” Carini fu ritrovato semi incosciente dopo tre giorni dalla scomparsa all’interno della sua Alfa 8c competizione parcheggiata ai lati della strada che costeggiava il bosco del parco del Circeo nei pressi di Sabaudia.

Mariangela Bell non sapeva ancora dove sarebbe arrivata.
Invece sapeva bene che non voleva continuare a fare la giornalista a mezzo servizio per una piccola emittente locale.
Così quando la soffiata arrivò non ci pensò su più di tanto, per sfruttare appieno lo scoop doveva solo gestire bene i tempi: le informazioni giuste ai destinatari giusti al momento giusto; la troupe per la diretta era già pronta, ottenerla non era stato un problema: mandare in onda il ritrovamento del figlio del più noto malavitoso della zona dopo il sequestro era un opportunità imperdibile e lei lo sapeva.
Al momento opportuno avrebbe avvisato i soccorsi e le forza dell’ordine in modo che arrivassero in piena diretta. Sarebbe stato un servizio spettacolare, e lei sarebbe stato il volto davanti alla telecamera che l’avrebbe raccontato.
– Tre, due… Vai sei in onda!
– Sì, siamo nel luogo dove poche ore fa abbiamo ritrovato il figlio di Ernesto Carini, il noto architetto e imprenditore edile che ha firmato molte costruzioni in tutta la provincia, già al centro di numerose indagini di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza per i suoi presunti rapporti con la mafia, i cartelli colombiani della droga – il tono perentorio e incalzante contrastava con la leggera incertezza che Mariangela mostrava quando affrontava le doppie tradendo l’influenza dell’educazione anglosassone ricevuta nella scuola della base americana dove era di stanza il padre.
Ora la telecamera stava abbandonando il mezzo busto su di lei e scarellava lentamente verso l’auto all’interno della quale Nicola Carini giaceva semisvenuto.
Da lontano arrivava l’eco delle prime sirene, le pale di un elicottero da qualche parte stavano affettando rumorosamente il cielo sopra il bosco del Circeo.
L’inquadratura si era insinuata all’interno dell’autovettura, il pallore quasi cadaverico del viso di Nicola Carini contrastava con la selleria in pelle grigia degli interni, indugiò sugli occhi mezzi chiusi, fece una panoramica del corpo soffermandosi morbosamente sulle mani e sui piedi nudi che l’uomo non avrebbe mai più potuto usare perché letteralmente bolliti.
Il commento di Mariangela Bell era divenuto del tutto superfluo.
Il blu di un lampeggiante illuminò la scena, dal lato opposto alla telecamera un infermiere in camice verde aprì lo sportello e si protese per afferrare il corpo, ma come dal nulla al suo fianco, proprio al centro dell’inquadratura comparve un sacerdote, il quale avvertendo la comprensibile sorpresa dell’altro si sentì in dovere di giustificarsi.
– Sono qui per dare conforto a quest’anima sofferente.
Nicola Carini per un attimo, sembrò trasalire emergendo per qualche istante dall’incoscienza.
La telecamera mostrò il sacerdote amorevolmente chino sul viso dell’uomo, mentre tracciava con il dito indice della mano destra una croce sulla sua fronte recitando un qualche salmo, mostrò la mano sinistra che sfiorava nervosamente il crocefisso che pendeva dal collo, mostrò il sacerdote rialzarsi e allontanarsi un poco sempre salmodiante, sempre con il crocefisso tra le mani, l’ultima cosa che mostrò fu il viso di Nick Carini che esplodeva, poi un frammento del lobo frontale del cervello schizzò verso l’obbiettivo e un velo rosso cupo calò su qualsiasi altra immagine.
Le grida di terrore dei presenti continuarono invece per molti minuti a riecheggiare nell’etere e non ci fu nessuna inquadratura per le due parole che marchiavano a fuoco la pelle del sedile posteriore
LUNA PIENA, con una croce a cancellare la P

– L’ha ucciso in diretta!
L’ha ucciso in diretta, maledizione!
Luna Iena poi, che cazzo significa?
La voce era quella del commissario Santorini, lo sgomento e la rabbia che racchiudeva, quelli di tutto lo staff investigativo.
Dopo il decimo passaggio sullo schermo al plasma, l’RVM della diretta non aveva più nessun segreto.
Non era rimasta inquadratura che conservasse un particolare inesplorato.
Per la decima volta il commissario Santorini fece l’appello.
– Allora, dottor De Masi, cosa può dirci dal punto di vista medico.
– Se devo limitarmi agli aspetti strettamente medici, ci sono diverse analogie con l’omicidio del soggetto Ciòlabbarca e…
– Mi perdoni – sbottò Santorini – ma non vedo quali, a parte il sangue a profusione.
– Mi faccia finire, Commissario. Tralasciando la “firma”, su entrambi i cadaveri sono presenti i segni della tortura.
Quella parola aleggiò per qualche secondo nella stanza.
– Più precisamente – riprese De Masi – la prima vittima è stata sottoposta al supplizio della corda, mentre Nick Carini ha subito il supplizio dell’ordalia dell’acqua.
Si tratta due pratiche utilizzate dalla Sacra Inquisizione per far confessare gli eretici e le streghe durante il medioevo.
– Ne sei certo? – intervenne l’ingegnere De Rossi.
– Purtroppo sì, Nadia, nella tortura della corda polsi e le caviglie della vittima venivano legate con due funi a ruote che si trovavano all’estremità di un tavolo. Le ruote venivano poi girate contemporaneamente tirando il corpo in direzioni opposte, l’effetto finale era quello riscontrato sul cadavere di Ciòlabbarca: vertebre distaccate e giunture slogate; nell’ordalia dell’acqua, invece, le mani del presunto peccatore venivano immerse nell’acqua bollente, nel nostro caso però c’è stato un particolare accanimento, infatti la pena è stata inflitta non solo alle mani ma anche ai piedi.
A parte questo, prima di assistere a quell’omicidio in diretta, era inspiegabile per me come potesse essere stato ridotto così il primo cadavere, le costole divelte, gli organi interni sbalzati sul selciato, nessun foro d’entrata, nessuna ferita da lama: un enigma.
Poi ho visto il volto di Nick Carini esplodere.
Un’esplosione dall’interno per la precisione: nessun proiettile, niente, solo un tonfo sordo.
Se vogliamo trovare il colpevole, dobbiamo cercare qualcuno in grado di far esplodere un essere umano in quel modo.

L’ordalia dell’acqua era sempre stata la sua preferita fin da quando l’aveva studiata al seminario. L’acqua simboleggiava il diluvio dell’antico testamento che spazzava via il peccato e l’uomo senza la tenebra del peccato può solo vedere la luce della verità.
E la verità era che il giovane Carini non conosceva nessuna delle informazioni che stava cercando, per questo aveva dovuto insistere più del previsto rispetto a quanto era prescritto nella Regola, ma ora sapeva che se voleva arrivare a comminare la meritata punizione a chi aveva causato in lui tanta sofferenza doveva puntare più in alto, il più in alto possibile.

Se avessero voluto distruggere la sua organizzazione, Ernesto Carini avrebbe saputo cosa fare, l’aveva fatto decine di volte: individuare il nemico, portarlo allo scoperto e annientarlo.
Non faceva differenza si trattasse di camorra, mafie di varie nazionalità o forze dell’ordine, la sua organizzazione era sempre uscita vittoriosa. Questo però era un nemico sconosciuto, privo di pietà e con un unico obbiettivo: arrivare a lui.
Per la prima volta nella sua vita si sentiva alla mercé di qualcuno; così non si stupì più di tanto quando, a un tornante nemmeno troppo pericoloso della strada che scendeva da Sermoneta, sentì l’auto andare fuori strada.
Il mezzo rotolò per un breve tratto lungo la scarpata mentre gli airbag facevano il loro dovere, l’ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu un crocefisso che pendeva davanti al viso.

Nadia De Rossi, ingegnere, lavorava per la polizia da qualche anno come consulente esterno per le tecnologie: in pratica quando anche alla scientifica brancolavano nel buio chiamavano lei.
Esperta in nuove tecnologie.
Come dire esperta in grane.
Aveva passato ore a riguardare la registrazione dell’omicidio del giovane Carini in cerca di qualcosa e alla fine qualcosa aveva trovato.
Subito prima dell’esplosione c’era un disturbo che si collocava tra l’istante precedente l’esplosione e l’istante successivo a quello in cui il sacerdote afferrando il crocefisso si allontanava: in quell’intervallo l’immagine sobbalzava impercettibilmente.
Avrebbe potuto essere un disturbo qualsiasi ma sul rapporto di analisi che ritornò dalla scientifica c’era scritto tutt’altro.
La frequenza del disturbo corrispondeva a quella utilizzata nella tecnologia RFID.
Stava per Radio Frequency IDentification: identificazione via radiofrequenza.
Semplificando molto si trattava di una tecnologia a onde radio utilizzata per il tracciamento delle merci che utilizzava dei radioricevitori microscopici.
Il ritrovamento di tracce di plastico nelle vie respiratorie delle vittime chiuse il giro: Luna Iena dopo aver torturato le proprie vittime, con un impulso radio RFID faceva saltare dall’interno le micro cariche che in qualche modo faceva loro inalare.
Rimaneva una domanda.
Chi era Luna Iena?

Mandare in tilt l’ESP dell’auto di Carini era stato piuttosto semplice: se l’era sempre cavata con le radiofrequenze: se non avesse frequentato il seminario, l’elettronica sarebbe stata la sua professione.
Alla questura non avrebbero impiegato ancora molto a isolare l’impulso radio, Silvia gli aveva parlato spesso di quella consulente così in gamba.
Silvia era la sua donna.
Per lei aveva tradito la Chiesa, anche se la Chiesa stessa aveva tradito lui per prima allontanandolo dalla “Congregazione per la dottrina della Fede”, anche se lui preferiva continuare a chiamarla “Sacra Inquisizione”.
Troppo fondamentalista avevano detto ma erano stati loro a dargli gli strumenti, la forza, una storia gloriosa da onorare. E così gli affidarono l’incarico di parroco nella balneare Sperlonga.
Là conobbe la donna che avrebbe cambiato la sua vita, una poliziotta che gli fece conoscere un amore molto diverso da quello di Dio.
Portarono avanti il loro rapporto clandestinamente per mesi ma quando lei gli comunicò che aspettavano un figlio, decise che era giunto il momento di portare tutto alla luce del sole: andò a Roma per rimettere i voti, al suo ritorno Silvia era come volatilizzata.
La cercò dovunque senza nessun risultato.
Le voci dicevano – È arrivata troppo vicino a Carini.
Le voci dicevano – Carini l’ha uccisa.
Le voci dicevano – Prete, stai alla larga se ci tieni alla vita.
Ma oramai lui prete non era più da tempo, da tempo non aveva più una vita né una donna né un figlio in arrivo e l’abito talare che indossava era oramai solo la sua uniforme da combattimento.
Nel buio della notte rischiarato dalle stelle e da una sottile falce nel cielo, Ernesto Carini era lì di fronte lui in quel bosco, legato mani e piedi a un tronco. E quando il vecchio riaprì gli occhi gli disse solo:
– Silvia de Vitis.
Carini scoppiò in una risata.
– Tutto questo casino per quella poliziotta puttana!
Se fossi venuto a casa mia a confessarmi magari ti avrei parlato di lei detto molto più tranquillamente e approfonditamente. – rise ancora più forte.
Luna Iena lo guardò impassibile e senza mutare espressione accese un fiammifero che buttò sulle fascine annaffiate di benzina ai piedi dell’uomo.
La risata si tramutò in un susseguirsi di singulti mentre le prime fiamme coloravano il buio fitto del bosco con i loro riverberi rossastri, tra un colpo di tosse e l’altro Carini aveva cominciato a supplicare di liberarlo
– Devi dirmi che fine ha fatto Silvia de Vitis.
– Stupido prete! La tua troia è morta, aveva ficcato il naso nei miei affari e così me ne sono liberato!
E adesso?
Farmi fuori non te la restituirà viva, se invece mi libererai ti coprirò di soldi, avrai tutto quello che vuoi, ti… Sì, ti risarcirò!
Te ne supplico, slegami!
– Chi? – il puzzo di carne bruciata cominciava impregnare l’aria. – Chi l’ha uccisa materialmente?
– Un sicario esterno all’organizzazione, ti prego basta sto bruciando! – alcune fiamme cominciarono a danzare tra i capelli del vecchio.
– Il nome! Voglio il nome.
– Non lo so, si fa chiamare… Oddio! Oddio non ci vedo più!
– Il calore sta lesionando il nervo ottico, ma sei ancora vivo.
Forza, parla: come si fa chiamare.
– Asfalto! Si fa chiamare Asfalto perché uccide le sue vittime coprendole con il bitume.La tomba della tua amichetta sarà qualche tratto di provinciale nei dintorni di Sperlonga – seguì una risata demente.
– Era ciò che volevo sapere.
– Adesso liberami, finché sono ancora vivo
Il prete ghignò – Non lo senti che le gambe sono completamente carbonizzate? Presto toccherà al resto, sei già cieco, se ti lascio morire ti faccio un favore.
– No ti prego! No… noooo…
Mentre si allontanava udì le grida continuare ancora per alcuni secondi, poi i polmoni scoppiarono come due palloncini troppo gonfi e restò solo il crepitio delle fiamme.
Non era finita.
Ci sarebbero state altre notti di Luna Iena.


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