"Marco" di Alessio Piras



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A U. A., non ti abbiamo dimenticato

 

Savona, ottobre 1997

Marco è alla stazione del treno di Savona. Indossa una tuta grigia e scarpe da ginnastica bianche. Ha il volto tirato, sulla guancia destra il cerone si sta lentamente sciogliendo sotto il sale dell’ultima lacrima. Biondo, occhi verdi, un metro e settanta. Forma fisica perfetta e diciannove anni spesi a farsi inutilmente comprendere dal resto del mondo. Si avvicina al telefono pubblico vicino alla biglietteria, nell’atrio principale della stazione. Inserisce una moneta e digita un numero.
– Pronto?
– Buonasera signora Brenno, sono Marco.
– Ciao Marco, ti passo Luca.
– Pronto?-, la voce del giovane è lieve e confortante. Ha quindici anni, ma è solo un dato anagrafico.
– Luca, sono Marco.
– Marco, ciao, che succede?
– Non ce la faccio più. Volevo salutarti.
– Marco ma che cosa stai dicendo?
– Quello che senti: sono stanco e mi andava di salutarti.
– Ok, Marco. Ora calmati. Domani è domenica, cosa ne dici se ci vediamo per andare a pattinare?
– Non posso, ma grazie. Ci vediamo lunedì -. E riattacca senza dare il tempo a Luca di rispondere.

Una cantina buia, un corpo, un giovane uomo solo. Le otto di sera di un sabato sera qualsiasi.
– Come l’hai saputo?- chiede Ale.
Gianni appoggiato al muro del portico di via Paleocapa sta sfogliando Il Secolo XIX. Lo dà all’amico, aperto a pagina dieci.
– Ecco, leggi.
– Oh belin, in cantina?
– Già, con un cavo elettrico.
– Cazzo!
– È uno schifo. Domani saranno tutti a piangere la sua morte, a chiedersi il perché e il per come. Ce
lo vedi quello stronzo di Briano a recitare la parte del vicepreside a lutto? Se solo ci penso, mi viene
l’orticaria.
Gianni non riesce a stare fermo, cammina nervoso, su per il portico che dalla Torretta porta a Piazza Mameli, sono quasi all’imbocco di via Pia e l’odore d’umido inonda l’aria ferma di una giornata maccaiosa di fine ottobre.
Ale fa fatica a star dietro a Gianni.
– E vai piano! Non c’è mica bisogno di correre.
– Scusa.
– Ti dico che qualcosa si può fare. Stanotte e domani si sveglieranno tutti con la sorpresina e tutti si
dovranno fare un bell’esame di coscienza.
– Cosa vuoi dire?
– Tu fidati di me, andiamo a sederci in un bar e ti spiego.
Percorrono via Pia e attraversano Piazza Chabrol, via Manzoni e Piazza Sisto IV; entrano e si siedono al bar tabacchi di Corso Italia. È l’unico posto aperto la domenica mattina. E il caffè lo fanno da schifo. Un locale tetro e squallido, ma non c’è di meglio ed è capace di piovere da un momento all’altro.

Savona è deserta, neanche i netturbini sono per strada e perfino l’edicolante di fronte al municipio ha deciso di tenere chiuso. Una massa di nuvole nere si sta schiacciando sulle colline della Valle del Letimbro creando una cappa umida e calda sulla città, che è appena investita da un pallido sole filtrato dall’afa. Maccaia: scimmia di luce e di follia. Solo un diluvio può asciugare e ripulire l’aria stantia e ferma; o una notte di tramontana, il vento spazzino che restituisce luce e colore.
– Se almeno il Ligure fosse aperto, potremmo farci un cappuccino come si deve. Qui ben che ci vada ci rifilano la focaccia di ieri.
– Ora calmati. Che cazzo te ne frega della colazione ora.
– Me ne frega sì, Ale! Cosa volevi dirmi, sentiamo.
– Stanotte ci si vede con Andre davanti alla scuola, diciamo per le quattro, quattro e mezza. Io porto la bomboletta e glielo scriviamo sul muro quello che pensiamo.
– Cosa vuoi dire?
– Facciamo in modo che Marco non muoia mai. Loro lo hanno ammazzato, noi lo faremo rivivere.
Ale è fiero dell’ultima frase pronunciata. Si mette comodo, gambe larghe e gomito sulla
sedia accanto. Prende uno stuzzicadenti e se lo infila in bocca con un sorriso compiaciuto. Gianni si
alza e va a telefonare ad Andrea.
– Pronto?
– Sono io, Gianni.
– Dimmi.
– Hai letto di Marco.
– No, ma mi ha chiamato Piero, quello che sta in classe con lui. Che cazzo, un disastro. Forse dobbiamo fare qualcosa, vedrai quanti discorsi ipocriti si inventeranno dopo averlo ammazzato. Perché si sarà pure suicidato, ma nessuno ha fatto nulla per evitarlo. Tutti sapevano della sua depressione e nessuno ha fatto niente.
– Per questo ti chiamo. Ale ha pensato sta cosa: ci si vede stanotte e glielo scriviamo sul muro lì davanti all’entrata. Marco non muore così.
– Tu cosa ne pensi?-, chiede Andrea.
– Cosa ne penso io? Si può fare.
– Per me anche. Dove ci vediamo per pianificare tutto?
– Oggi alle tre alle Trincee, dal campetto di pallacanestro.
Gianni riattacca. Con passo lento e molleggiato percorre i pochi metri che separano il telefono pubblico del bar tabacchi dal tavolo in cui è seduto Ale.
– Andrea ci sta -, dice appena si siede.
– Bene, allora si fa, per Marco!
Ale solleva la tazza del cappuccino e tocca quella di Gianni. Bevono in un solo sorso il caffè bollente.
– Al tre? – propone Gianni guardando Ale di sottecchi.
– Vai: uno…due…tre!
Scattano in piedi ed escono dal bar tabacchi correndo come razzi.

Sta vincendo la tramontana. Non ha piovuto, ma intorno alle sei del pomeriggio è girato il vento e le raffiche scendono giù dalla Valle del Letimbro violente verso il mare. Spazzano via nubi, umidità e aria bagnata; appiattiscono il mare fino a farlo brillare sotto il cielo in parte stellato.
– Hai finito?- chiede Gianni in apprensione.
– Mi mancano tre lettere – risponde Andrea in piedi sulla sella del Rally dell’amico.
– Cazzo muoviti! La polizia sta arrivando, Ale mi sta facendo segno.
Gianni concitato inizia a picchiettare sulla spalla di Andrea. Un pugno, due pugni, tre pugni. Andrea vacilla sulla “C” di SCUSACI.
– Ok mi muovo, però calma eh?!- urla sottovoce Andrea.
– E sbrigati! Se ci beccano sono cazzi… Mio padre è già venuto a riprendermi in Questura un paio di volte quest’anno.
– Eccolo, finito! Con la luce tra un paio d’ore vedremo bene com’è venuto?
Gianni non fa in tempo ad alzare gli occhi che un riflesso tinge di azzurro il muro di cemento.
– Merda andiamo! Vai cazzo muoviti vedo i lampeggianti!
Di corsa, quasi rotolando, giù dalla discesa dell’I.T.I.S. Galileo Ferraris di Savona. Gianni salta sul suo Rally 50, mette in moto con la pedalina, sgasa a palla e parte sgommando. Ale sul suo Fifty aspetta Andrea a prima ingranata. Appena salta sul residuo di sella che gli rimane apre il gas, molla la frizione e l’80 nuovo di zecca montato solo una settimana fa inizia a cantare.
– Uhuuuhuuuu! Vai cazzoooo!- esclama Andrea con l’adrenalina a mille.
– Copri la targa col piede! Li abbiamo dietro!- urla Ale. Andrea appoggia le mani sulle spalle del
compagno, si solleva leggermente, allunga il piede e copre come può la targa. Ale cerca di coprire
Gianni che è davanti.
– Copri bene!- urla Ale senza voltarsi.
– Ci sto provando cazzo! Gira a destra, a destra!
All’incrocio in fondo a Via Vittime di Brescia, Gianni volta a sinistra verso Genova, Ale a destra verso Imperia. Si dileguano nella notte.

Ore 7 e 30, il sole è già sorto. La luce del mattino e la tramontana rendono l’aria trasparente. Dalle finestre della 2°A del Galileo Ferraris, Capo Noli e il Promontorio di Portofino si possono toccare. Il mare è una lastra di cobalto piallata da un vento che non cessa di soffiare, forse dalla collina che sovrasta la città si possono vedere la Corsica e le isole toscane.
Professori e studenti arrivano alla spicciolata. La giornata inizia per tutti al bar della scuola: Filippo impeccabile dietro il bancone prepara caffè e cappuccini, sua moglie sempre sorridente serve focacce e cornetti ai pochi tavolini sistemati senza ordine dentro il locale.
– Cazzo, stavolta me la sono fatta sotto- esclama Andrea davanti al cappuccino fumante e
masticando la focaccia intrisa di latte e caffè.
– Già, ma ne è valsa la pena.
Ale solleva la tazzina del caffè, nell’altra mano il cornetto alla crema.
– Per Marco!- esclama.
– Per Marco!- risponde senza esitare Andrea.
Di colpo il professore di educazione fisica si volta e sorride loro con complicità, solleva leggermente la tazzina e beve in un sorso il caffè fumante.
– Belin, Soriano è un grande – bisbiglia Ale con la bocca sporca di crema e latte.
– Puoi dirlo!- conferma Gianni, sbucato da dietro.
– Fili! Cappuccio e focaccia!
– In un lampo!-, risponde Filippo e si mette alla macchina a preparare il caffè e a scaldare il latte,
mentre sua moglie allunga una striscia di focaccia al ragazzo.

Sono quasi le otto, mancano pochi minuti al suono della prima campanella, dopo di che altri
dieci minuti per quello della seconda che decreterà l’inizio della prima ora. Il bar è pieno: studenti
e professori si accalcano al bancone e sui tavolini consumando gli ultimi minuti prima dell’inizio
delle lezioni. Quelli di quarta fomentano assenze colossali di compiti in classe e interrogazioni; i
professori, facendo finta di non sentirli, programmano e discutono le loro vendette. Filippo si destreggia tra il bancone e la macchina per l’espresso. All’apparenza una mattina come tante.
– Buongiorno professore, come andiamo?- chiede Filippo a Mastrogiacomo, docente di elettrotecnica nella sezione H.
– Guardi, male. Quel povero ragazzo…- sospira il docente mentre gira lo zucchero nel caffè.
– Eh, lo so, una vera tragedia, solo l’altro ieri mattina…- la voce del barista spezzata, un secondo di silenzio, poi qualcuno inizia ad uscire, altri entrano e richiamo l’attenzione di chi è ancora col caffè a metà.
– Ro’, vieni a vedere!- grida qualcuno mettendo la testa dentro il bar.

Davanti al cancello della scuola c’è una piccola folla, sul muro di fronte all’ingresso principale è comparsa una scritta blu, a caratteri grandi, che dice:

MARCO SARAI SEMPRE TRA NOI, SCUSACI

Il silenzio sembra quasi un rumore: sovrasta, con il suo peso, anche il baccano del traffico in lontananza. L’aria si è fermata, perfino la tramontana sembra a lutto.
Suona la seconda campanella: Gianni, Ale e Andrea escono dal bar e si avviano verso la loro aula.


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