"Altrove" di Simone Togneri


 

 

Come una folata di vento: un sibilo acuto taglia l’aria sulle teste dei pochi radunati davanti all’unica taverna. Quattro anime e un paio di cani, stasera. Ci voltiamo tutti verso il Russo. Sguardo perso nel vuoto, vacilla sulle gambette smilze e si accascia sul tavolo di Occhiodivetro, che sta parlando con Ippocrate di sigarette e di donne. Rotola a pancia in giù sul pavimento di pietra. La bottiglia e i bicchieri che trascina con sé vanno in mille pezzi. Qualcuno grida che si sente male. Ci abbassiamo su di lui in due o tre e lo rigiriamo. Piano. È difficile non oscuraci a vicenda la poca luce delle fiaccole. Gli scostiamo dalla fronte i capelli appiccicosi e restiamo a fissare il disco nero che gli si è conficcato quasi per metà in mezzo agli occhi. Non si è sentito male.

Arriva altra gente. Tutto il villaggio è radunato attorno al Russo. Ci scambiamo più di un’occhiata. Le domande non hanno risposta. Guardiamo in alto, tra le cime degli alberi che circondano le baracche. Nessuno sa dire da quale direzione è arrivato il disco. Nessuno lo ha visto. Ne abbiamo percepito il volo, simile nel suono al ronzio di un grosso insetto notturno. Poi un tonfo, e il Russo si è accasciato senza un gemito. Non abbiamo mai visto nulla del genere. Non che da queste parti se ne vedano di cose, intendiamoci, ma nemmeno la nostra immaginazione ha mai viaggiato tanto.

Abbiamo scelto di vivere isolati, ma non per questo abbiamo fatto dell’ignoranza la nostra bandiera. In città ci scendiamo, ogni tanto. Non ci piace, ma dobbiamo farlo per tenerci aggiornati. Dobbiamo conoscere il nemico, per sopravvivere. Ci andiamo periodicamente, stando ben attenti a non farci riconoscere. Ci confondiamo nella folla, ci mescoliamo ai tanti straccioni che chiedono la carità agli angoli delle strade. Nessuno fa caso a noi, nessuno ci guarda in faccia. Così ascoltiamo i discorsi della gente, le notizie alla radio, leggiamo le prime pagine dei giornali esposte accanto alle edicole. Qualche volta ci capita di trovare intere riviste nella spazzatura. Per noi conoscere quello che succede nel mondo, è il modo per evitare che il mondo venga a sorprenderci. Sappiamo tutto ciò che c’è da sapere, possiamo tenere d’occhio le persone, capire se si stanno organizzando per venirci a prendere. Possiamo farci trovare preparati, se serve. Eppure questa del disco, nonostante tutto, è una storia nuova.

Ippocrate è il primo a scuotersi. Nella penombra la sua barba giallastra vibra come se lui stesse parlando. Ma non parla. Non ancora. Si china sul Russo, gli posa due dita sul collo e controlla il battito. Sa come si fa: nell’Altra Vita era un dottore. Lo è stato fino a quando hanno cominciato a farsi troppe domande su certe morti. I suoi pazienti, malati di mali incurabili, si lasciavano convincere da Ippocrate, che all’epoca non si chiamava affatto così, a intestare a lui tutti i loro beni. In cambio ricevevano la promessa che lui li avrebbe guariti. Quando poi capivano come stavano le cose, per paura che lo denunciassero, lui li uccideva con forti dosi di insulina.

Ippocrate chiude gli occhi, li riapre. Ci comunica che il Russo è morto. Che è morto lo hanno capito anche i sassi. Quella cosa è stata lanciata per uccidere, non per fare carezze. Melamara si inarca sulla schiena, lascia scricchiolare le ossa e sputa un fiotto melmoso di saliva e tabacco sulle pietre sconnesse. Mi chiede che cosa ne facciamo del corpo, che forse non è il caso di seppellirlo insieme ai nostri fratelli morti. Io rispondo che non sta a me decidere. E nemmeno a lui. Lo faremo tutti insieme. Come abbiamo sempre fatto. Propongo una seduta straordinaria e gli uomini sono d’accordo. I problemi, qui, si risolvono parlandone. Le decisioni si prendono mettendole al voto. Non possiamo permetterci di lasciare le scelte al caso o alla leggerezza. Se vogliamo sopravvivere ogni cosa che facciamo deve essere vagliata con attenzione, e per fortuna c’è sempre qualcuno che ha l’idea giusta o mette il dito su un punto a cui nessuno aveva pensato. Bossolo, per esempio, quando non è steso ubriaco dietro a qualche catasta di legna, dimostra un’intelligenza che va ben oltre la sua laurea in fisica. All’università lui e un suo compare teorizzavano il delitto perfetto, nell’Altra Vita. Gli ci sono voluti un paio di dozzine di tentativi, e la morte del suo socio, per scoprire che il delitto perfetto non esiste. E poi c’è Albina, la vecchia, incancrenita, mamma di Mazzaferro, che fa la calza e guarda allarmata dalla finestra. Anche lei sa usare il cervello, non esagero nel credere che sia la più saggia tra noi. Molte delle idee che ci hanno consentito di sopravvivere sono sue. È lei che di solito tiene a freno i bollori del figlio, ché a dar retta a lui saremmo già tutti morti sulle forche di mezzo mondo. Prima di approdare qui, lei, suo marito e Mazzaferro avevano una locanda in cui gli avventori solitari entravano camminando sulle proprie gambe e uscivano ribollendo nelle pance di ignari clienti. Poi un giorno un viaggiatore trovò un dito umano nella minestra, se lo mise in tasca e corse a chiamare aiuto. Trovarono i resti di decine di persone. Il conto con la giustizia lo pagò solo il capofamiglia, Ghino, perché moglie e figlio si dileguarono come lepri. Lui venne impiccato dai villani sulle rovine fumanti della locanda. Albina e Mazzaferro li cercano ancora. Ma, d’altronde, ci cercano ancora tutti. L’unico che forse non cercano più è Melamara. Lui aveva preso l’impegno con Dio stesso di ripulire il mondo da tossici, puttane e finocchi. Li ammazzava a martellate o a colpi d’ascia, poi dava tutto alle fiamme. Una volta aveva dato fuoco a un cinema a luci rosse. Erano morte sei persone. Gli piaceva il fuoco. È stato geniale a mettere in scena la sua dipartita. Pensano che sia morto nel rogo del suo laboratorio di falegname. In un certo senso, però, morto lo è davvero. Siamo tutti morti, qui. Questo è solo un agglomerato di catapecchie abitate da cadaveri.

Un cigolio attira la mia attenzione. Una delle finestre dello Sbrana si è aperta. Qualcuno mette fuori il naso. Si vede che non tutti sono scesi a curiosare. Il buio mi impedisce di distinguere bene chi sia, ma non mi sembra la figura dello Sbrana. C’è aria ferma. Nessuno si occupa più del Russo, riverso tra i tavoli. Lo fa solo Autostop, innamorata di lui in gran segreto. Ora non ha più nulla da nascondere e può carezzargli la fronte davanti a tutti. Tra le lacrime gli dice di alzarsi, ché non è niente. Con un rumore di carne strappata gli sfila il disco dalla fronte e lo getta lontano, con rabbia. Un cane corre a raccoglierlo, guaisce e lo molla facendolo tintinnare. Dev’essersi tagliato la bocca. Lo raccolgo anch’io. Per non ferirmi uso un brandello della mia camicia. È pesante, sottile, grande come un cd, nero come un pezzo di carbone. I bordi luccicano dal sangue e continuano a luccicare anche dopo che lo ripulisco. Faccio scorrere un dito sulla superficie. C’è tensione sul ferro appena ruvido. Lavorazione a mano, è come se ci fosse scritto sopra. Ho lavorato il metallo nell’Altra Vita e me ne intendo. Su una faccia sono incise due lettere. Penso a qualcuno che porta quelle iniziali, ma qui nomi e cognomi non esistono più. Li abbiamo abbandonati come i nostri ricordi. Non sappiamo più nemmeno chi siamo. Riconosciamo i peccati, ma abbiamo dimenticato il nome dei peccatori. Alzo la mano, bilancio il peso e lo lancio verso il tronco di un castagno. Un sibilo nuovo taglia l’aria e il disco si conficca nella corteccia con una semplicità secca e disarmante. Mi scappa un commento di ammirazione e qualcuno mi guarda storto. Mi domando chi, tra noi, sia in grado di forgiare uno strumento del genere. Mi chiedo chi abbia avuto l’idea di un’arma simile.

Abbiamo imparato a costruirci gli utensili da soli. Usiamo il legno, come materiale primario. Il ferro è difficile da reperire ed è difficile da lavorare. Ogni tanto ne portiamo dalla città, quello che riusciamo a rubare, ma di solito preferiamo evitare i furti. Se beccano anche uno solo di noi, per la nostra comunità potrebbe essere la fine. Con il poco che c’è forgiamo coltelli, pentole e attrezzi. Oggetti rozzi, che bastano per svolgere i pochi lavori. Armi da fuoco non ne abbiamo. Fanno troppo rumore e nessuno deve sapere che su queste montagne, battute dalla pioggia e dal vento per trecentocinquanta giorni l’anno, vive qualcuno. Con quegli utensili, se volessimo, potremmo uccidere un uomo. Un uomo si uccide facilmente anche a mani nude, basta chiedere a Mazzaferro, ma sarebbe un modo barbaro e grossolano, la vittima patirebbe pene infinite. Per quello penso che la morte a cui ho assistito stasera, troppo rapida e precisa, non provenga dal villaggio. Lo ammette anche Sordina, accanto a me, con la solita voce appena udibile. Gli è rimasta così da quando la camuffava per telefonare alle autorità senza farsi riconoscere. Lo faceva ogni volta che ammazzava qualcuno. A volte scriveva una lettera. Li sfidava a trovarlo, a fermarlo. Povero Sordina, non ha mai avuto la soddisfazione di sentirsi almeno sospettato. Alla fine si è stancato. Sordina guarda il disco, ancora conficcato nel tronco dove l’ho lanciato. Secondo lui è un enorme segnale di pericolo per tutti e io sono d’accordo.

Alzo di nuovo gli occhi alla finestra dello Sbrana. La figura è ancora lì, immersa nel buio. Non vedo i tratti del volto, ma sembra che stia fissando proprio me. Poi mi guardo intorno. Lo Sbrana è seduto vicino a Melamara, intento ad arrotolarsi una sigaretta. Torno a guardare la finestra e non c’è più nessuno. Sbatto le palpebre. Chiamo lo Sbrana, gli spiego che c’era qualcuno in casa sua. Lui risponde che non è possibile. Io insisto. Lui strizza gli occhi, mette a fuoco il riquadro buio, annuisce. La finestra è aperta, mentre lui ricorda bene di averla lasciata chiusa. Tira fuori un coltello e mi dice di seguirlo.

Entriamo in casa sua. Con cautela. L’oscurità è rotta solo dalla luce della lanterna che proietta ombre sulle pareti di legno e pietra. Il pavimento scricchiola sotto i nostri piedi e il tanfo di terra e foglie morte è quasi insopportabile. È odore di decomposizione, come quello che sentivano i vicini che abitavano accanto a casa sua, nell’Altra Vita. Qui si tratta di vegetali e, al massimo, ossa di animali avanzati da qualche pasto. A quel tempo erano resti umani. Erano avanzi anche allora. Saliamo al primo piano e raggiungiamo la finestra aperta. Dal basso ci guardano tutti e facciamo un cenno per dire che è tutto a posto. Non abbiamo trovato nessuno, ma lui adesso è convinto che qualcuno sia stato lì. Sente odore di umano. Ed è strano, perché noi ormai lo abbiamo perso. Non abbiamo più nulla di umano. Non abbassa la guardia, lo Sbrana. Tiene il coltello nel pugno, la lama pronta a colpire. È spaventato. E me lo trasmette.

 

Abbiamo deciso cosa fare del Russo: un falò. Albina lo ha proposto, gli altri hanno accettato all’unanimità. Anch’io non posso che essere d’accordo. Non usiamo mai il fuoco come rituale funebre. Un po’ perché non vogliamo che le fiamme attirino qualche curioso. Un po’ perché la procedura è la stessa per tutti. Siamo tutti uguali, qui quando si muore si va sotto terra. Tranne il Russo. Lui non era uguale a noi. Per questo, forse, è stato l’unico a morire ammazzato. Per questo non possiamo seppellirlo.

Comparve un giorno tra i castagni dietro la baracca del vecchio Penna. Era allo stremo. Barcollava in stracci lerci e maleodoranti. Era ferito, affamato. La febbre lo divorava insieme ai parassiti. Non abbiamo molte regole, ma le poche sono semplici e rigorose. Una di queste dice di accogliere chiunque si presenti. In qualsiasi stato di salute egli si trovi. Qualsiasi sia il motivo che lo ha spinto su queste montagne. Con il senno di poi, il Russo avremmo dovuto trascinarlo in qualche grotta e lasciarlo lì come pasto per i lupi. Invece mantenemmo fede alle nostre regole. Non arrivano molti stranieri da queste parti. A dire la verità non arriva mai nessuno. Il Russo era il primo dopo anni e tanto avevamo bisogno di una faccia nuova con cui parlare che non abbiamo saputo vedere cosa si celava dietro ai suoi occhi chiari. Si rimise in fretta. Dopo due settimane era in grado di svolgere qualsiasi lavoro. Perché un’altra regola che ci siamo imposti è che qui ci si rende utili. Non importa cosa sai fare, basta che lo fai. E se non sai fare niente, imparare non è difficile. Qui i lavori da fare sono semplici e il tempo non manca. E, di solito, nemmeno la buona volontà.

Una sera ci riunimmo nella baracca comune al centro del villaggio. Ci raduniamo sempre qui quando dobbiamo discutere di qualcosa. Questo è il luogo dove battezziamo i nuovi arrivati e dove diamo l’ultimo saluto ai morti. Ci sedemmo in cerchio, attorno al fuoco. Il Russo sedette tra me e Albina. I bagliori delle fiamme disegnavano strani riflessi sul suo volto scavato. Fissava le fiamme, le mani sulle ginocchia. Gli abiti che gli avevamo dato gli stavano larghi. Ci presentammo uno per uno. Capì subito di aver trovato quello che cercava. Aveva sentito parlare di un luogo fuori dal tempo e dallo spazio dove poter essere dimenticato. Ne aveva sentito parlare talmente tante volte, che alla fine si era convinto della sua esistenza. Noi siamo quasi una leggenda, tra gli ospiti delle patrie galere. Forse è per quello che i gendarmi non prendono sul serio l’esistenza di questo posto. Lo stesso motivo che spinge invece i disperati a cercarci. E per uno che ci trova, chissà in quanti falliscono. Non si arriva da noi per caso. Non è facile. Bisogna cercarci e volerci trovare davvero. Bisogna meritarselo. Come ci avesse trovati, il Russo non lo sapeva. Aveva vagato sulle montagne per settimane, senza incontrare un solo essere umano o un semplice segnale della sua presenza. Nessuna casa, nessun manufatto. Per quello pensava di essere sulla strada giusta. Per sopravvivere si era nutrito di radici e piccoli animali. Aveva perso l’orientamento nella nebbia, era sopravvissuto al freddo cercando rifugio nelle grotte di cui la montagna è cosparsa. Era sul punto di cedere. Poi aveva visto del fumo salire dal versante nord e, di notte, i bagliori dei fuochi. Si era avvicinato. Non sapeva cosa avrebbe trovato, ma di sicuro qualsiasi cosa era meglio della forca su cui sarebbe salito se fosse rimasto dove stava.

Tra disperati ci riconosciamo al volo e il Russo trovò nelle nostre facce qualcosa di familiare. La cosa è sempre stata reciproca, ma non con lui. Il Russo non ci piacque. C’era qualcosa sotto la sua pelle che ci diceva di non fidarci. E poi non ci raccontò mai la sua storia. Nessuno è obbligato a farlo, ma tutti prima o poi vuotano il sacco. Anche i peggiori. Lui no. Nessuno poteva escludere che, ora che ci aveva trovato, sparisse all’improvviso per tornare alla testa di uno squadrone armato di lanciafiamme. Non possiamo escludere nulla. Non siamo brava gente, non riusciamo a dormire tra due guanciali. Abbiamo deciso di auto esiliarci, ma questo non fa da contrappeso alle nostre colpe. Non abbiamo pagato a nessuno il nostro debito, e non è impossibile che qualcuno venga fin quassù per riscuoterlo. Per cui lo tenemmo d’occhio, questo nostro nuovo ospite. Non lo lasciammo mai da solo, nemmeno di notte. C’era sempre qualcuno a sorvegliarlo. Ma non ci bastava tenerlo sotto controllo, dovevamo capire le sue intenzioni. Così cominciammo a spaventarlo. Volevamo una reazione. Gli dicemmo che questa montagna è maledetta, che Dio si è dimenticato di noi e, per fortuna, anche gli uomini. Il Russo rispose che voleva restare e Albina lo avvertì che questo è un posto che nessuno deve conoscere. Chi resta, resta per tutta la vita. Il Russo ripeté che la cosa gli andava bene. Aggiunse che non aveva altro luogo dove andare. Non ci convinceva, e alla fine facemmo una votazione per stabilire cosa fare di lui. In dieci volevamo ucciderlo e in dieci no. Pari. L’ultima a votare fu Albina, che gli concesse di vivere. Non lo fece per pietà, ma solo perché aveva il timore di innescare, uccidendolo, un meccanismo di autodistruzione interna. Non ci si ammazza tra di noi. A meno che qualcuno non faccia qualcosa di tanto grave da meritarselo, e a memoria non è mai successo prima. Il Russo avrebbe dovuto superare un lungo periodo di quarantena, prima di essere ammesso in tutto e per tutto. E in questo periodo avrebbe dovuto rigare dritto. A ogni modo, era già stato portatore di un male oscuro. Il fatto che quasi la metà di noi avesse deciso di togliere la vita a un uomo basandosi solo su un sospetto, mi fece pensare che gli istinti non muoiono solo perché fingi di dimenticarli.

Qui siamo tutti afflitti dalla tosse e dai reumatismi. Soffriamo di una forma cronica di bronchite che non ci lascia mai in pace. L’umidità penetra fino al cuore pulsante delle ossa e amplifica il freddo. Colpa della pioggia. Piove quasi sempre. I pendii scoscesi e franosi della montagna sono lavati con violenza. Torrenti gelidi di acqua e fango spazzano via alberi e sentieri, a volte anche interi costoni. La conformazione del territorio cambia ogni anno, anche più volte nel giro di pochi mesi. I punti di riferimento si dissolvono come neve al sole. Il giorno in cui il Russo mostrò il suo vero volto, la pioggia veniva giù tanto forte che sui tetti delle baracche pareva ci fossero squadre di carpentieri armati di martello. Si era ubriacato nella taverna di Fisarmonica e aveva messo le mani addosso a Barbablù. Gli aveva spaccato la faccia. Barbablù. Lo chiamiamo così perché nell’Altra Vita gli piaceva accompagnarsi a donne ricche e sole che, dopo aver alleggerito di tutti i risparmi, uccideva e bruciava nella stufa di casa. E siccome a suo tempo aveva un bel sorriso, non come ora che ha i denti simili agli ingranaggi di un tritarifiuti, le signore gli si concedevano con facilità. Il Russo lo aveva aggredito perché il poveretto gli aveva vinto dodici centesimi a Briscola Matta. Gli ultimi centesimi. Qui i soldi non contano. A che servono i soldi in un posto che non ha niente da vendere? Qui conta quello che fai per vivere. È con quello che ti paghi sopravvivenza e rispetto. Qui dipendiamo l’uno dall’altro in un equilibrio precario, ma funzionale. Se muore qualcuno cerchiamo di ripristinare l’equilibrio sostituendolo senza rimpianti. Il Russo non aveva capito il concetto e voleva fare di testa sua. Non puoi vivere come un cane sciolto, qui. Se resti, ti inserisci. Non ci sono alternative. Lui era come un animale selvatico e non sapevamo mai cosa aspettarci. Aveva massacrato Barbablù per un nonnulla, cosa dovevamo aspettarci da uno così? Non potevamo permetterci di tenere tra noi una mina vagante come lui, ma non potevamo nemmeno mandarlo via. Gli abbiamo parlato, lo abbiamo minacciato, pestato a sangue. Gli abbiamo promesso che lo avremmo fatto a pezzi e Tagliaecuci, con la sua pelle, ci avrebbe fabbricato il vestito buono. Tagliaecuci era capace di farlo, dal momento che nell’Altra Vita faceva gilet con la pelle delle sue vittime. Eppure lui non ha mai cambiato atteggiamento. Penso che eliminarlo fosse rimasta l’unica soluzione possibile. Qualcuno lo ha fatto prima che potessi proporlo. Ma ora che il Russo ha avuto quel che cercava, non riusciamo comunque a tirare un sospiro di sollievo. Se, come pensiamo, chi lo ha ucciso non è del villaggio, le possibilità non sono molte: o i conti da saldare riguardavano solo loro due, e magari il lanciatore di dischi se ne torna da dove è venuto, o è venuto apposta per ucciderci tutti.

Guardo il Russo ardere su una pira messa insieme in fretta. Mi chiedo se, visto la fine che ha fatto, il suo destino sia stato davvero migliore di quello che credeva. Ha vissuto un po’ di più, se quella che facciamo noi può essere definita vita. Tutto qui. L’odore delle sue carni che bruciano invade ogni spira del villaggio e lo Sbrana mastica a vuoto. Non stacca gli occhi dal rogo. Credevo che avesse lasciato il suo male lontano da qui, ma forse non è così. Forse questo non vale per nessuno di noi, nel profondo siamo pronti a tornare indietro a riprenderci un bagaglio che è sempre stato troppo ingombrante. Il nostro esilio volontario sta per perdere le pacifiche sembianze che abbiamo voluto dargli.

 

Lo spiazzo al centro del villaggio è piccolo, la bettola di Fisarmonica ci sta giusta con due o tre tavolacci bisunti. Alla sera c’è sempre qualcuno. A volte Fisarmonica prende lo strumento che gli è valso il soprannome e si mette a suonare. È bravo, ci rapisce con le note. Come rapiva le sue vittime, nell’Altra Vita. Se ne andava in giro per le campagne con la sua fisarmonica in spalla e squartava tutti quelli che si lasciavano sedurre dalla sua musica. Si va a dormire tardi, ci si stordisce con un distillato fatto con le bucce delle castagne. Si parla, si litiga, qualche volta si viene anche alle mani. I vecchi raccontano di questo posto, ma nessuno conosce bene la sua storia. Non ha neanche un nome preciso. Molti di noi lo chiamano Altrove e io sono d’accordo. Altrove è quel luogo che è distante da tutto e da tutti, perduto nel tempo e nello spazio. Non so da quanto tempo esista, di certo coloro che hanno costruito le prime palizzate sono tutti morti, uccisi dal freddo, dalla fame o da malattie e infezioni impossibili da curare quassù. Quassù non si muore di vecchiaia, questo è certo. Abbiamo solo due donne. Autostop e la vecchia Albina. Non ci sono bambini. Autostop è rimasta incinta sei volte da quando è qui, e ha partorito bambini che non sono sopravvissuti. Come può un bambino farcela quassù? La nostra comunità va avanti grazie ai fuggiaschi che ci raggiungono o che troviamo stremati nella foresta. Non andiamo a rapire la gente, come a volte propone Pesceluna, che lo faceva nell’Altra Vita. Lo faceva con i bambini. Poi scriveva alle madri spiegando quanto fosse gustosa la carne dei loro figli. No, chi si ferma da noi lo fa di sua spontanea volontà. Chi parte per venire qui, lo fa sapendo che non tornerà mai più indietro. Il giorno che nessuno crederà più alla nostra esistenza e la gente non cercherà più di raggiungerci, Altrove morirà.

Io avevo saputo di questo luogo mentre stavo in carcere. Me ne parlò un tizio con cui condividevo la cella, un ispanico di nome Ricardo. Aveva ucciso tredici persone durante la sua carriera di molestatore notturno. Entrava di notte nelle case, seviziava e uccideva chiunque le abitasse. Pensava di essere onnipotente, e questo era stato il suo errore. Fu Ricardo a parlarmi di questo posto. Non conosceva l’ubicazione, non ricordava dove ne aveva sentito parlare e da chi. Ma conosceva le montagne dove secondo lui si trovava, ed era sicuro che ci sarebbe arrivato se fosse riuscito a fuggire. Eravamo diventati amici, io e Ricardo. Ci accomunava un patto di condanna eterna, perché tutti i nostri giorni a venire erano destinati a esaurirsi dietro una porta a sbarre. Così Ricardo mi chiese di aiutarlo a evadere. Dopo avremmo raggiunto la nostra Shangri-La. A Ricardo piaceva questo riferimento letterario. Aveva letto Hilton e lo avevo letto anch’io.

Pianificammo la fuga per mesi. Cominciammo a parlare con cautela, a dare alle varie fasi un nome diverso, per evitare che qualche guardiano intuisse le nostre intenzioni. Fuga, per esempio, era diventata figa. Parlare di figa in carcere si può. Di fuga, no. Eravamo consapevoli che avremmo dovuto uccidere ancora per salvarci, ma non era un problema. Non ci dispiaceva, era solo un atto necessario. Per me è sempre stato così. Non ho mai ucciso per rabbia. La rabbia ti fa perdere il senso della misura, non controlli più niente e io invece ho sempre amato il controllo. Non avevamo armi se non le mani e l’ingegno, e la sorpresa era dalla nostra. Nessuno si aspettava un’evasione da me e da Ricardo. Per tutto il tempo della detenzione ci comportammo in maniera esemplare, tanto che diventammo anche amici, se così si può dire, di due dei guardiani più giovani. Uno era quasi un ragazzino. Era innamorato, poveretto. Diceva che la ragazza lo aveva preso per la gola. Lo abbiamo aiutato. Di donne ne ho sempre avute poche, non ci ho mai saputo fare. Non ho mai saputo parlare il loro linguaggio. Non mi sono mai interessate, non ho mai sentito il bisogno di avere una ragazza. Ma il bisogno di fare sesso sì. Ricorrevo alla violenza non perché essa mi procurasse piacere, la trovavo pratica. Solo questo. Ricardo invece era un ruba cuori, con le donne ci perdeva tempo. E ci sapeva anche fare. E il giovane guardiano lo ringraziò dei consigli. Aspettammo il pranzo del giorno di Natale per mettere in atto la fuga. I detenuti che se lo meritavano, nei giorni di festa, uscivano dalle celle e mangiavano tutti insieme seduti a un lungo tavolo. Il menù era studiato perché potessero sentirsi come a casa, almeno in quelle occasioni. Sulla tavola mancava solo il vino. Per ovvie ragioni le posate erano di plastica e non c’erano contenitori di vetro. In altre occasioni simili avevamo conservato delle ossa di agnello, che avevamo appuntito e affilato. Tagliavano la carne come rasoi. Noi approfittammo del rientro in cella per accendere la miccia. Ci mettemmo a battibeccare con altri carcerati, fino a scatenare una rissa. Dovemmo uccidere una decina di guardiani, tra cui anche il giovanotto innamorato. Quando Ricardo gli torse il collo mi venne quasi da ridere, pensai che l’essere preso per la gola fosse proprio il suo destino.

Nel caos riuscimmo a sparire. Organizzarono una caccia all’uomo, ma non ci trovarono mai. Ci facemmo crescere i capelli e la barba, vestivamo abiti più grandi per dissimulare la nostra corporatura. Ricardo aveva un cugino che gli doveva un paio di favori e riscosse il credito facendosi preparare documenti falsi. Viaggiammo fino a raggiungere queste montagne. Vagammo per settimane. Non so come abbiamo fatto a sopravvivere. Le poche scorte alimentari che ci eravamo portati dietro si erano esaurite quasi subito. Una notte Ricardo fu trascinato via da un torrente in piena che cercavamo di attraversare e io rimasi da solo, ferito, a morire di freddo. Ricordo solo che quando ormai pensavo di essere morto, mi svegliai in un letto scomodo e maleodorante, con un gruppo di persone intorno a me a fissarmi. Mi salvarono senza nemmeno sapere chi fossi. Forse perché la mia faccia racconta la mia storia meglio di me.

 

La lama a forma di disco vola di nuovo, all’imbrunire. Me la vedo sfrecciare a un palmo dal naso mentre recupero la scure da un albero che ho appena abbattuto, e la sento conficcarsi con forza nella nuca di Randello, che chiamiamo così per un motivo che non ha bisogno di essere spiegato. Randello frana in mezzo ai tronchi macchiandoli di sangue e urina. Mi butto dietro la catasta sperando di non essere colpito da un altro disco. Resto lì quasi un’ora, con il cadavere di Randello a sanguinare e a pisciare a nemmeno un metro da me, prima di trovare il coraggio di alzarmi e correre alla baracca di Cuoreamore, la più vicina. Lui era un poeta, nell’Altra Vita. Ogni volta che uccideva qualcuno componeva un’ode in sua memoria. Era un romantico. E anche adesso, ogni tanto, si cimenta con le rime. Senza ammazzare nessuno. Siamo sconcertati. Credevamo che la morte del Russo fosse un caso isolato, che il disco fosse stato lanciato per uccidere proprio lui e invece ci sbagliavamo. Randello che c’entra? Che ha fatto di male oltre a stuprare e uccidere una trentina di ragazze?

Andiamo a recuperare il disco dalla testa di Randello e lo confrontiamo con l’altro: identico. Nero, affilato, pesante. Mortale. Con le due lettere in evidenza. Mosè è il più vecchio. È cieco. Non so quale malattia gli abbia tolto la vista, una trentina di anni fa. In tutto questo tempo ha imparato a usare gli altri sensi. Così gli basta annusarti per capire se, sotto al puzzo di selvatico, c’è qualche traccia di umanità. Non sappiamo quanti anni abbia e non lo sa più nemmeno lui. Era arrivato qui da ragazzo insieme al padre e a un fratello. Non ricorda cosa facesse nell’Altra Vita, ma crede di essere l’unico del villaggio a non aver fatto mai nulla di male. Forse è così, forse è stato solo trascinato qui dalla sua famiglia. Forse no. Forse i suoi peccati sono talmente gravi che perfino lui ha preferito dimenticarli. Mosè accoglie il disco nelle mani callose e se lo rigira tra le dita, ne percorre la superficie stando attento a non tagliarsi. Percepisce la stessa tensione che ho sentito io. Sente l’odio, nel metallo, è come se la vibrazione che ha animato le mani di chi l’ha costruito, attraverso il disco, si trasferisse alle mani di Mosè. Sulla lama non fa alcun commento. Le sue uniche parole sono rivolte a chi l’ha lanciata. Dice che, chiunque sia, non ce l’aveva solo con Il Russo. Sancisce che bisogna trovarlo. Alza il viso grinzoso verso le cime degli alberi che, appena rischiarate dalla luce delle fiaccole, risaltano contro il cielo nero. Dice che dobbiamo prenderlo, ma non ucciderlo. Anche se lo farebbe a pezzi lui stesso. Occorre capire chi è, perché è qui e soprattutto se qualcun altro oltre a lui sa di noi. Perché da questo dipende la vita o la morte di questo luogo. Pogo avanza l’ipotesi che possa essere stato qualcuno di noi. Mosè dice di no. Primo, perché non avrebbe senso ucciderci tra di noi. Capisce che il Russo se la sia andata a cercare, quindi con lui l’ipotesi potrebbe anche essere accettabile, ma non lo è più dopo la morte di Randello. Secondo, perché un oggetto come quello che stringe tra le dita non può essere forgiato tra le nostre baracche. Un conto è costruire vanghe, zappe e coltelli. Un conto oggetti come il disco. Quella è un’arma che viene dalla città.

Mosè butta il disco tra la polvere del pavimento e ci sputa sopra. Le sue parole hanno acceso una visione: immagino orde di cittadini che salgono su dalle città, pronte a bruciarci con il fuoco di una legge che non vale più della nostra.

Diamo l’ultimo saluto a Randello e lo seppelliamo nel cimitero fatto di terra e pietre tirate fuori a forza dal fianco della montagna. Poi ci dividiamo in tre squadre e cominciamo a perlustrare i dintorni. Sotto la pioggia, le torce faticano a restare accese. Il Nano raccoglie il disco, lo pulisce e lo infila nella cintura insieme ai coltelli. Ha passato metà della sua vita lavorando in un circo e l’altra metà in carcere. Nella prima aveva imparato a lanciare i coltelli. Nella seconda a sbudellarci la gente. Partecipiamo tutti alla spedizione, a parte Mosè, le donne e un paio di altri che non hanno la forza di camminare. Sapersi muovere nel buio è naturale per chi ha sempre vissuto lontano dalla luce, ma nonostante questo perlustriamo la zona fino alla sera del giorno seguente, senza risultato. Quando rientriamo al villaggio scopriamo una serie di dischi di metallo conficcati nelle tavole della baracca di Quarantaquattro. I dischi sono quattro, disposti in verticale perfetta a poca distanza da terra. Non c’erano alla nostra partenza e Albina conferma di aver udito quattro tonfi regolari prima che facesse buio del tutto. Ci schieriamo tutti davanti ai dischi, senza avere il coraggio di toccarli. Accendiamo un torcia in più e ci guardiamo in faccia. È un segnale, ma non ne capiamo il significato. Tagliaecuci chiede a Quarantaquattro di quelle coppiette a cui sparava mentre facevano l’amore in macchina, e percepiamo un guizzo alle nostre spalle. Qualcosa di nero, più nero della notte che avvolge la foresta. Una figura cenciosa e informe appare come materializzandosi dal nulla, rotea su se stessa a una velocità folle e colpisce Quarantaquattro in pieno petto. Non saprei dire con cosa lo abbia colpito, la velocità è stata tale che non sono riuscito a capirlo. Il povero Quarantaquattro sbuffa, barcolla pesantemente e frana contro la casa. Scivola a terra e lì rimane, seduto contro il legno, con gli occhi strabuzzati. Sotto di lui si allarga una chiazza scura. Le lame gli hanno squarciato la schiena. Mi volto. La figura è scivolata via prima che quel disgraziato toccasse terra. In silenzio. È orribile realizzare che mentre noi eravamo a dargli la caccia, lui era appostato qui tra le piante, in attesa come una belva nella notte. Chiunque sia, qualunque cosa sia, sa muoversi al buio più di noi.

 

Siamo sempre stati gente pratica, abituata al sangue e al dolore. Non abbiamo mai creduto alla magia o alle superstizioni, e non ci crediamo adesso. C’è chi dice che sia uno spettro, altri parlano della creatura che popolerebbe questi boschi. Le leggende parlano di un essere misterioso che assalirebbe i viaggiatori di notte calandosi dalle cime degli alberi, ma nessuna fa riferimento ai dischi. Mosè mastica una manciata di tabacco e dice che, uomo o no, ucciderà tutti. Non è né spaventato, né dispiaciuto. Ha vissuto fin troppo in questo schifo, e l’idea di andarsene non gli dispiace. Qualsiasi inferno è meglio di questo. Lo ripete spesso, ultimamente. E come a confermare le sue parole, la mattina dopo troviamo i cani sgozzati davanti alle porte. Credo che nessuno abbia dormito stanotte, eppure nessuno ha visto nulla. E non si è sentito un solo guaito. Cuoreamore dice che i dischi non lasciano nemmeno il tempo di guaire. Autostop è accanto a lui, in piedi. Sta eretta come quando aspettava i suoi clienti, lungo la statale, una donnona bionda che, a suo tempo, non passava inosservata. Prima mostrava il pollice per farsi caricare, poi il medio quando scendeva dall’auto. Solo che il guidatore non poteva vederlo, il saluto finale, perché in testa aveva ben altro. Per la precisione proiettili calibro .22.

Mosè. In piedi davanti ai cani morti, ribadisce che qualunque sia il motivo che ha dato origine a tanto odio, lui non si fermerà. Si abbassa sui cani, tocca le ferite, infila le dita negli squarci, le ritira intrise di sangue. Lo assaggia, la barba gli si arrossa. La carne devastata porta i segni di una rabbia che Mosè intuisce venire da lontano. C’è qualcosa di diverso nelle ferite dei cani rispetto a quelle degli uomini. I margini non sono così netti. Il vecchio si rialza a fatica. Dice che i cani non sono stati uccisi con i dischi, perché quelli sono riservati agli uomini. Sono stati sgozzati con un coltello qualsiasi. Ciò significa che lui è venuto al villaggio, ha camminato tra noi, ha respirato a un passo dal nostro giaciglio. Avrebbe potuto tagliare la gola a chiunque di noi. Bastava che lo avesse voluto. Mosè fa una pausa e di nuovo alza il viso agli alberi. «È qui.» dice. Io sono terrorizzato. Ed è una sensazione a cui non sono abituato. Non sono abituato ad avere paura, e lo ucciderò solo per il fatto di avermi fatto provare un’emozione che non mi piace. Sta giocando, il bastardo. Ci sta dicendo che non abbiamo scampo. Ce lo dice perché non abbiamo possibilità di combattere. Come fai a combattere con un fantasma? Poi penso che siamo fantasmi anche noi e mi rincuoro.

Seppelliamo Quarantaquattro accanto a Randello e ridistribuiamo le mansioni. Ci vuole mezza giornata per far tutto. Decidiamo di non uscire di nuovo a pattugliare i dintorni, è uno spreco di energia e non ci va di lasciare il villaggio. Decidiamo che il nemico va affrontato qui, a casa nostra. Inutile andare a cercarlo. Stabiliamo dei turni di guardia per la notte e accendiamo tutte le fiaccole che abbiamo. La luce è l’unico modo per tenere lontano il buio. Ma la luce crea le ombre, e più la luce è intensa, più le ombre sono profonde. Eravamo ventidue ombre, al villaggio. Ora siamo rimasti in diciannove. Escluse le due donne e i tre anziani, decidiamo che sette uomini copriranno il primo turno di guardia, da mezzanotte fino alle quattro del mattino, e sette il secondo. Io faccio parte del secondo. E la cosa non mi piace. Come posso pensare di dormire se là fuori si aggira un nemico che si muove con la velocità del vento e con il silenzio della luna? Sette persone bastano a presidiare un forte militare, ma in questo caso possono non bastare. Nessuno ci garantisce che, al cambio turno, non ci trovino tutti con la gola tagliata nei nostri letti fatti di erba secca e foglie.

Devo aver preso sonno all’improvviso, perché mi sveglio di colpo e il primo pensiero va alla gola. La tocco e sento che è intatta. Deglutisco e il bolo di saliva scende nello stomaco. Fuori c’è il caos. Non so cosa stia succedendo, ma sento gli altri urlare e piangere. Mi affaccio sulla porta. Lo spiazzo al centro del villaggio è un mucchio di cadaveri. Le membra si intrecciano come le vesti lacere e sporche di terra e sangue. Esco e mi avvicino, sento le gambe che cedono. Riconosco Sordina, sul mucchio come se ci fosse caduto dall’alto. La testa è riversa all’indietro, gli occhi spalancati. Un disco è conficcato nella gola e il sangue gli ha colorato il viso di rosso. Sotto di lui c’è Mazzaferro. La sua testona è impossibile da confondere con le altre. E poi la conferma che è lui me la dà sua madre, Albina, in ginocchio lì accanto che mischia lacrime e sangue mentre cerca di tirarlo fuori senza riuscirci. Nel mucchio riconosco anche lo Sbrana. E poi gli stivali di Barbablù. E poi gambe e piedi che lì per lì non comprendo nemmeno a chi appartengano. Capisco solo girando attorno ai corpi che ci sono anche Ippocrate e Bossolo. Gli altri si muovono come automi. Mosè è immobile sulla soglia della sua capanna. Si appoggia al bastone e annusa l’aria. È imperturbabile, come se tutti quei morti non lo disturbassero. È rassegnato alla fine. Sette uomini sono stati massacrati nel giro di pochi minuti, senza che nessuno si accorgesse di niente. Potevamo morire tutti, perché chi si nasconde nella foresta avrebbe potuto uccidere anche noi che dormivamo. Non lo ha fatto. Ci ha riservati per il gran finale.

Cuoreamore mi sbatte contro e quasi mi butta a terra. È sconvolto. Parla in rima e pensa di essere tornato bambino. Piange, poi ride, poi piange di nuovo e compone un’ode ai morti. Lo afferro per le spalle, lo scuoto. Si sveglia. Ha il viso sporco di fango, di sudiciume. Vedo solo gli occhi, gialli, divorati da chissà quale vizio o malattia. Torna sobrio per un attimo, mi guarda come se fossi sua madre. Poi mi strattona, dice che sono pazzo. Dice che siamo pazzi tutti noi a restare qui. Dobbiamo abbandonare Altrove. Si avvia verso le ultime case, scompare tra i tronchi degli alberi. Resta solo la sua voce stridula, a comporre rime su rime mentre il fruscio dei suoi passi sulle foglie morte svanisce in fretta.

 

Un colpo. Forte. Più forte della pioggia. Un colpo che si trascina per un po’, come se a cadere fossero state più cose tenute insieme da una corda. Sul tetto della mia baracca. Forse un ramo. Esco fuori che è ancora giorno, ma l’aria è troppo scura. Anche gli altri hanno sentito. Escono dai loro alloggi come zombi. Hanno gli occhi spenti, le membra contratte nello spasimo della paura. Siamo tutti tesi. Siamo tutti in allarme. Come potremmo non esserlo con quei cadaveri ancora accatastati al centro del villaggio? Fisarmonica sale sul tetto e guaisce come un cane a cui hanno amputato la coda. Non capisco subito che cos’ha. Quando salgo a mia volta lo trovo in ginocchio, chino sui resti di Cuoreamore. Morto anche lui. Un disco gli ha quasi aperto la faccia in due. Lo caliamo giù dal tetto della capanna, ed è un miracolo che non si sia sfondato. Tra gli occhi il taglio è netto, profondo a tal punto da aver inciso l’osso frontale. Qualcosa di viscido e gelatinoso sgocciola fuori quando lo spostiamo. La poesia, penso. Le sue odi adesso vanno a mescolarsi alla pioggia che filtra tra le pietre. Povero Cuoreamore, era fuori di sé ieri sera. Chi può biasimarlo? È fuggito attraverso la foresta, da solo, alla rinfusa, senza armi, senza nemmeno un barlume di idea su dove andare. Deve avere corso come un forsennato, da farsi scoppiare il cuore in petto. Fino a quando il disco lo ha raggiunto e lo ha ucciso. Forse ha visto in faccia il suo assassino. Quel bastardo che in molti si ostinano a non chiamare uomo.

Trasciniamo il corpo di Cuoreamore fino alla catasta dei cadaveri e torniamo alle nostre baracche. Ad aspettare la morte. Forse l’unico modo per sopravvivere è stare tutti insieme, dice Albina. Se stiamo uniti non può affrontarci tutti nello stesso momento. Se rimaniamo all’interno, non potrà utilizzare quei suoi maledetti dischi. Deve affrontarci di persona. Qualcuno di noi forse morirà nella lotta, ma se gli saltiamo addosso tutti insieme avremo ragione noi. Allora lo interrogheremo, lo bolliremo vivo, il villaggio riprenderà la sua vita e questi giorni saranno ricordati come i Giorni della Rinascita.

Ci raduniamo nella baracca comune. Nessuno ha voglia di parlare. Siamo spaventati ma determinati a uccidere. Un tempo lo facevamo per tornaconto, per piacere, perché non potevamo farne a meno. Adesso è per sopravvivere, e ha un sapore del tutto diverso.

Dodici animali feriti. Autostop trema come una foglia, Albina piange il nome del figlio e impreca. C’è Mosè, impassibile a fissare il buio. Il Penna e Melamara, accanto a lui, sono troppo vecchi e stanchi per fare qualsiasi cosa. Il Penna, poi, anche da giovane non aveva una grande prestanza fisica. Faceva lo scrittore e aveva preso per oro colato il detto “ne uccide più la penna che la spada”. Siamo rimasti in sette uomini validi: io, Il Nano, Pesceluna, Occhiodivetro, Fisarmonica, Tagliaecuci, Pogo.

Mosè ci chiede di fare una cosa che non abbiamo mai più fatto da quando siamo qui: tornare all’Altra Vita. Dobbiamo cercare tra i nostri spettri la causa che ha dato vita a tutto questo odio. La rabbia che percepisce nell’aria ha origini antiche. Cova da troppo tempo per essere arginata da un gruppo di fuggiaschi. Conoscerne le origini potrebbe essere il modo non di fermarla, ma almeno di capirla. Perché non c’è peggior morte di quella che non si riesce a comprendere. Solo ora lo comprendo. Ora che sono dall’altra parte.

Mi siedo e nascondo il viso tra le mani. Torno indietro, a quando ero giovane. Ripercorro i volti di tutti quelli che ho incontrato, di tutti quelli che ho ammazzato. Ripenso alle donne che ho stuprato e mi sorprendo di ricordare i volti di tutti. Uno a uno. Come se tutto fosse accaduto ieri. Capisco che il male non può essere cancellato.

La luce aumenta lentamente, in guizzi repentini e irregolari. Penso che qualcuno abbia buttato un po’ di legna sul fuoco, ma non è così. Gli altri si agitano. Pogo, che stava raccontando una barzelletta, si interrompe a metà. Come un interruttore che si spegne. Forse era così che faceva anche con i bambini che intratteneva alle feste, travestito da Clown, prima di strangolarli. Guarda fuori. Sento che parla di fiamme, di fuoco. Scosto le mani e il respiro mi si ferma. I cadaveri stanno bruciando come un’enorme fiaccola. E mi chiedo come sia possibile, visto che ha piovuto fino a pochi istanti fa. Usciamo fuori. L’odore della carne che arde è fortissimo, d’un colpo mi fa venire voglia di vomitare. E poi, come colpite da fulmini, anche le baracche si incendiano. Bruciano una dopo l’altra, in un crepitare di legni che si contorcono, di tetti che si squarciano e precipitano investendo tutto in una pioggia di scintille. La luce è intensa da far chiudere gli occhi e le ventate di calore bruciano la pelle della faccia. Da una delle capanne esce una figura avvolta nelle fiamme. Grida, si contorce e la sua testa esplode come una vescica colpita dai proiettili di una cerbottana. Il corpo cade disteso, si scuote ancora, freme e poi resta immobile. La baracca da cui è uscita la figura è quella di Occhiodivetro, per cui penso che si tratti di lui. Qualcosa rotola e va a sbattere contro il mio stivale: un occhio di vetro. I volti delle trecento persone che lui ha guardato prima di uccidere, forse sono ancora imprigionati lì dentro.

Non c’è tempo di pensare. Anche la baracca comune sta andando a fuoco. Gli uomini non si fermano a spegnere le fiamme, ognuno cerca di mettersi in salvo come può. Corrono tutti senza sapere dove andare. L’unico che resta immobile è Mosè, ancora all’interno della baracca comune. Se ne sta seduto, sembra che si trovi sotto l’ombra di un albero, sulla riva di un torrente. Il tetto crolla all’improvviso e un mare di fiamme piove sulla sua testa. Non sento un solo grido. Mosè scompare.

Capisco che non posso restare. L’unica salvezza è correre lontano da qui. Anche perché il bagliore generato dalle fiamme è così intenso da rischiarare le nuvole più basse. Lo vedranno anche dalla città. Almeno riprendesse a piovere.

Afferro una fiaccola e attraverso lo spiazzo. Vengo investito dall’odore dei cadaveri che bruciano e mi tappo il naso. Raggiungo la capanna dell’Albina. Lei è riversa sulla soglia, faccia al cielo. Al centro della fronte il solito disco nero. A pochi metri da me, Il Nano delira frasi senza senso e lancia i suoi coltelli a caso, verso il folto degli alberi. Li lancia tutti e allora attacca con i dischi che aveva raccolto. Fa in tempo a farne volare tre e un nuovo disco è per lui. Arriva da fuori. Il Nano si accascia senza fiatare. Riprendo a correre. Oltrepasso le ultime abitazioni e l’aria si raffredda subito. Dal bosco il villaggio è come un’enorme pira. Fisarmonica si è messo a suonare per l’ultima volta. Suona una danza frenetica, che è quasi un grido. Poi smette. Di colpo. La sua fisarmonica emette un suono, dissonante come quello di un clacson. Poi nient’altro. Chi è ancora vivo urla, ma le grida cessano una dopo l’altra. Riconosco la voce stridula di Autostop, che piange e chiede aiuto prima di spegnersi, poi quella scura di Pogo. E poi ancora quelle di Melamara, del Penna, di Tagliaecuci. Per ultima sento una risata. Pesceluna. Il dolore gli procura piacere, e quello di ardere vivo è l’unico che ancora non aveva provato.

Corro via. Forte. Nella notte la mia fiaccola disperde scintille come la coda di una cometa.

 

Non so per quanto ho corso. Sono scivolato, rotolato lungo pendii scoscesi, mi sono graffiato, ferito, ho sbattuto contro tronchi e pietre nella mia corsa per la salvezza, ma non mi sono mai fermato. Lo faccio adesso che non vedo più il villaggio, che non sento più il crepitare del fuoco e l’odore del fumo. Mi volto, ansimo. Del villaggio resta solo un bagliore rossastro che si riflette nelle nuvole, oltre le cime degli alberi. Comincia a fondersi con l’alba.

Pianto la fiaccola nel terreno e siedo su un tronco. Mi prendo la testa tra le mani. Ci metterò un po’ a realizzare che il mio mondo non esiste più. Non ho più un posto dove andare. I miei compagni sono morti, il villaggio è distrutto, e con lui tutto ciò che avevo. Non ho cibo, anche se l’acqua non è un problema. E non sono al sicuro. Lui è ancora in giro e penso che mi abbia seguito. Sa dove sono, per cui adesso la cosa più sensata è nascondermi, almeno fino a che non raccoglierò le idee sul da farsi. La montagna è piena di anfratti. Mi basterà trovarne uno abbastanza grande e libero da altri animali. Dico altri animali, quasi fossi uno di loro, e non sbaglio. È così che sono diventato: un animale. Ma forse, penso mentre mi rialzo, un animale lo sono sempre stato. Solo un animale fa quello che facevo io nell’Altra Vita. Poi, di nuovo, penso che gli animali non uccidono per loro tornaconto. Uccidono per sopravvivenza. Ora la mia sopravvivenza dipende da colui che è la causa di tutto questo casino. Un casino generato da me. Da me e dal mio socio di allora, Anatolji. Noi abbiamo innescato la miccia che ha fatto esplodere quest’odio.

Mi rimetto seduto. Quando il Russo è apparso al villaggio, quel giorno, mi è quasi preso un colpo. Non credevo ai miei occhi: Anatolji. Lui non mi ha riconosciuto, o se lo ha fatto se l’è tenuto per sé. Agli altri non ho detto mai nulla su di me e Anatolji. Non piaceva a nessuno, e del resto nemmeno a me. Non avrebbe avuto senso. Come per lui non aveva senso specificare che non era russo, bensì ucraino. Non faceva differenza per noi.

La nebbia che sale nelle prime luci dell’alba evoca il fumo grigio delle rovine di una città. Era una città sporca e cattiva, piena di topi e vagabondi pronti a tagliarti la mano per una fede nuziale o la gola per un dente d’oro. La guerra ci stava lasciando questo bel regalo. Il ragazzino avrà avuto otto anni. Dieci al massimo. Il suo viso era delicato, ma gli occhi no. Ci guardava pieno di rabbia. Anatolji aveva in mano un coltello sporco di sangue. Lo teneva puntato su di lui.

Se gridi taglia la gola anche te!

Il ragazzino restò in silenzio a guardarmi frugare nelle tasche di quell’uomo e quella donna, e poi nei cassetti della loro bella casa, nella quale ci eravamo introdotti. Trovai solo pochi spiccioli. Lei aveva un ciondolo al collo, un grosso medaglione di metallo scuro con incise due lettere. Lo strappai e lo porsi al Russo. Lui lo prese e lo guardò. Pensavo fosse un oggetto di valore. Invece Anatolji lo lanciò con disprezzo al bambino.

Perché non ammazzi anche me?

Perché non ammazzo i mocciosi.

Il mio socio seguiva un codice e io non lo sapevo. Il ragazzino aveva fegato. E mi stupii che non avesse versato nemmeno una lacrima. Ignorava il coltello puntato su di lui e mi fissava come se si aspettasse qualcosa. Una spiegazione, forse. Gli dissi che un giorno avrebbe capito. Avrebbe avuto la sua occasione. Avrebbe…

Perché non ammazzo i mocciosi.

Tiro su la testa e guardo la nebbia. Si insinua tra i tronchi degli alberi e nasconde il bosco. Nasconde tutto. Sorrido. Si è fatto seguire, penso. Il Russo, Anatolji. Sapeva solo uccidere, e lo faceva con una freddezza tale che spaventava anche me. Sempre così freddo, così calcolatore, un killer senza pietà. Una macchina di morte tanto perfetta da distruggere ogni cosa sul suo cammino.

La fiaccola si spegne. Tra gli alberi sento un sibilo sottile e continuo. È come il ronzio di un insetto e ho la sensazione che si avvicini. La nebbia nasconde tutto, ma non me. Anatolij è stato il primo a morire. Io sono rimasto l’ultimo di Altrove. E non è un caso, perché le mie colpe brillano come segnali luminosi agli occhi di chi sa riconoscerle.


Lascia un commento