“Il cielo sopra Ustica” di Cynthia Collu


 

Cominciò lentamente a contare i passi.

Era un trucco che aveva escogitato da bambina, quando se ne stava da sola in cortile, arrabbiata per qualcosa ch’era successo e che la faceva soffrire. Camminava e misurava i passi. Uno, due, tre, quattro…Continuava a contare finché l’irritazione e il dolore non passavano. Allora si fermava. Si guardava intorno, meravigliata di aver camminato tanto e di ritrovarsi sempre lì, sotto la magnolia ritta come una sentinella, con le foglie lanceolate che puntavano il cielo.

Anche adesso cercava di allontanare la rabbia. Contava.

Riuscì ad arrivare sino a cinquanta prima che Luciano le tornasse in mente. Le sue mani secche, screpolate dalla psoriasi, sapevano diventare piume sopra di lei. Ma ormai appartenevano al passato. Erano mesi che lui la ignorava. Così, all’improvviso. Si era irrigidito in qualche sua convinzione, i soliti preconcetti nei confronti di Nadia, se la prendeva per qualcosa che lei non faceva, o che faceva, o che aveva fatto male, sa il diavolo cosa voleva quell’uomo da lei, ogni tanto entrava in crisi e si dimenticava della sua esistenza. I primi anni Nadia non se ne era preoccupata, e poi succedeva raramente, lui sembrava così innamorato, gentile.

Col tempo era capitato sempre più spesso. Erano crisi che lui covava con ostinazione, e poi un giorno, improvvisamente, cominciava a trattarla male. Lei gli si avvicinava per dargli una carezza e lui le allontanava la mano. Non le rivolgeva la parola se non per offenderla. Andava avanti così per settimane, finché la crisi non esplodeva. Allora litigavano come pazzi, si mettevano le mani addosso. Poi se ne stavano entrambi seduti sul divano, esausti, davanti alla televisione spenta. Ricominciavano a parlarsi, finalmente la loro vita normale, Nadia non chiedeva altro che un po’ di normalità da quel rapporto.

Adesso lui era di nuovo in crisi, e lei sognava di alzarsi di notte nella luce fioca della luna, lo individuava nel buio, addormentato di sbieco sul letto matrimoniale, gli metteva le mani al collo e lo strangolava. Così finalmente riusciva ad addormentarsi.

Cinque mesi di silenzi. D’allora non l’aveva più sfiorata con un dito. Nadia a volte impazziva dalla voglia di fare l’amore. Cercava in lui qualche segnale dell’antico desiderio, Luciano era sempre stato un amante voglioso, impaziente. Ma si era trincerato nella sua delusione, si nutriva di quella.

Deluso di che, poi? Forse era semplicemente annoiato della propria vita, o della vita che conducevano insieme, il che in fin dei conti era la stessa cosa. Inutilmente Nadia gli aveva chiesto di parlarne. Che gli aveva fatto, che cosa era successo. In che cosa poteva cambiare. C’era forse un’altra? Lui l’aveva guardata con odio, così le era sembrato, gli occhi l’avevano scrutata dentro alle pupille, fino in fondo, dove lei si era ritrovata piccola e deforme.

Magari, le aveva risposto.

Figlio di puttana. Figlio di puttana!

Scacciò le lacrime e si concentrò sui passi. La strada era piena di cartacce, riuscì a contare una trentina di scontrini fiscali, di ogni tipo e grandezza. Erano stai gettati dappertutto: sulle aiuole, sui marciapiedi, accanto ai negozi, nei pressi dei bidoni della spazzatura. Passò davanti al negozio del panettiere e subito dopo notò per terra uno scontrino rilasciato dall’esercente; più avanti ce n’erano altri, gettati a singhiozzo, si dirigevano qua e là per le strade, ma difficilmente raggiungevano i cestini dei rifiuti. Sembrava che le persone aspettassero appositamente di allontanarsi dal luogo dell’acquisto per liberarsene. Nadia se le figurò guardarsi in giro con circospezione, le dita che cincischiavano la carta per poi aprire appena il palmo della mano e far scivolare il foglietto a terra. Anche il figlio di puttana aveva questo brutto vizio.

Svoltò dietro l’ufficio postale. L’abitazione d’Isolina si trovava poco distante. Nadia doveva attraversare ancora la piazza, passare davanti alla chiesa e imboccare la via privata dove sarebbe finalmente giunta a destinazione.

La prima cosa che colpiva d’Isolina era la statura, un metro e quarantotto di altezza, almeno così diceva lei. Guardava la gente con la testa sollevata, gli occhi svagati, da miope, scopriva i dentini aguzzi e sfoderava un sorriso disarmato, pronto al pianto, e le persone le rispondevano con un sorriso rassicurante: non c’era niente di strano in lei, non avevano davanti una nana, solo una deliziosa donnina in miniatura.

Nadia non aveva mai creduto che Isolina arrivasse al metro e quarantotto. Una volta, anni prima, quando erano ragazze, l’aveva vista togliersi le scarpe con i tacchi e letteralmente accorciarsi, era quasi sparita sotto i suoi occhi come Alice dopo aver mangiato il fungo.

“Dio, sei proprio uno scricciolo”, le aveva detto, “ma che razza di trampoli porti!”

“Dodici centimetri, la misura giusta”, aveva risposto l’amica. Solo quando aveva aggiunto “donna nana è tutta tana“ Nadia aveva capito. Avevano riso entrambe.

Quello era stato anche il giorno che aveva notato il particolare della pelle. Le era sempre sembrata bella, la pelle d’Isolina, bianca e liscia come quella di un bambino. Invece quella volta, mentre si rimetteva le scarpe guardandola dal sotto in su con aria di sfida, Isolina era entrata nel raggio di luce proveniente dalle persiane della cucina. Così Nadia gliela aveva vista: una pelle tesa, delicata e sgualcibile come seta. Dietro a quel bianco c’era un fermento, un brulichio grigio, come se le rughe già premessero, impazienti di uscire. Sulle tempie la pelle era tanto sottile che si vedevano le vene pulsare, con vita propria, due sanguisughe verdastre.

Nadia aveva distolto il viso per il ribrezzo, aveva guardato la stanza disadorna, aveva notato i mobili dozzinali, il pavimento con le piastrelle consumate. Aveva provato il desiderio immenso di fuggire.

Isolina si era allontanata senza far rumore, scivolando sui tacchi come se avesse sotto le pattine. Era entrata in bagno e aveva iniziato a stendersi sotto gli occhi una crema di bellezza. Nadia l’aveva raggiunta.

“Meglio prevenirle, le rughe, piuttosto che curarle!” le aveva gridato Isolina sbirciandola dallo specchio.

Lei non aveva risposto.

Era stata per tutto il tempo in silenzio, osservando l’immagine riflessa delle mani esili e nervose dell’amica che si muovevano a scatti sulla superficie di cristallo.

 

Isolina le si parò davanti in mutande e reggiseno. Era scalza, e così bassa le sembrò un bambino. Portava i capelli biondi tagliati corti e non aveva un filo di trucco. Il seno era piccolo, quasi inesistente, e i fianchi si allargavano bianchi e asciutti sotto l’ombelico.  Puntò il viso in alto per salutarla.

“Litigato ancora con Robert?” chiese. Gli occhi chiari ebbero un lampo divertito.

Si era fissata che Luciano assomigliasse a Robert Redford da giovane, quando aveva girato Butch Cassidycon Paul Newman. Isolina diceva che se li sarebbe volentieri scopati tutti e due, che Paul era più bello ma Robert era più sexy, le faceva venire le voglie solo a guardarlo.

Isolina non si era mai sposata. Dopo pochi mesi troncava ogni relazione e subito dopo faceva lunghe telefonate a Nadia spiegandole che cosa non andava con l’altro, sbuffava, esigeva il consenso dell’amica, si proclamava infelice. Il record era stato di un anno, con un artista, uno che a letto le declamava versi. Poi si era stufata anche di lui, aveva preso tutti quei fogli scribacchiati e li aveva gettati in pattumiera. A Nadia spiegava che gli uomini erano tutti dei bastardi traditori, che erano buoni solo per essere scopati. Lei non ne voleva di palle al piede.

Spesso si divertiva a raccontarle dei suoi amanti. “Ti guardano con l’occhio lesso”, le diceva, “e tu sai già dove vogliono arrivare. Non è che a me dispiaccia l’uccello, anzi, è uno dei pochi piaceri della vita, però qualche volta, se s’interessassero anche alla mia testa e non solo alla mia passera…” E rideva, scuotendo la zazzera corta. Anche Nadia rideva. Con lei Isolina si lasciava andare, ci andava giù pesante. Nadia n’era lusingata, lo considerava un modo per dirle che erano alla pari, single e sposata, non c’era proprio niente che si frapponesse alla loro amicizia, nessun uomo, tanto meno un marito qualsiasi.

“Sono stata con uno”, le aveva raccontato una volta, “matto come un cavallo. Era cattolico praticante. Quando siamo andati a letto ha messo subito le cose in chiaro. Per lui scopare equivaleva tradire sua moglie, perciò con le altre doveva praticare il cunnilinctufellatio,così non era un vero tradimento. Capito come lo rendeva elegante, quel porco, il volermelo mettere in bocca?” E rideva, rovesciava la testa, scopriva i denti indifesi, nel racconto gli occhi chiari avevano una luce crudele. Nadia la guardava. Non riusciva a vederla cattiva, solo una bambina alle prese con un gioco che l’affascinava. A lei invece quei racconti mettevano l’agitazione.

Le disse di un altro con cui faceva l’amore in albergo, in pieno pomeriggio. Quando raggiungeva l’orgasmo ululava felice ai quattro venti che il seme era stato sparso, e lei si vergognava come una ladra. Un altro ancora amava sdraiarsi a pancia in su e voleva che lei si accucciasse e gli facesse la pipì in bocca. Mentre la faceva lui la leccava.

Nel sentire queste cose Nadia si eccitava suo malgrado, le guance calde e un filo di sudore proprio dietro le orecchie. “Basta, basta”, diceva allora, “il tuo elenco di stranezze non finisce più!”

Ma la volta successiva chiedeva ancora nuovi particolari, voleva sapere di tutti quanti. Per esempio di quell’uomo che aveva proposto a Isolina di far l’amore insieme alla propria moglie. “E’ più brava di me, non te ne pentirai”, le aveva detto strizzandole l’occhio.

Provava invidia sentendo l’amica descriverle quegli incontri curiosi, quell’umanità per lei sconosciuta. Bizzarra.

Lei non aveva grandi esperienze di uomini. Era nata con Luciano. Stava morendo con lui.

Non abboccò alla provocazione del nome Robert; Isolina sapeva già tutto, al telefono le aveva raccontato per filo e per segno come stavano le cose con Luciano.

“Vieni a dormire da me” le aveva proposto l’amica. “Puoi fermarti quanto vuoi, è ora che tu gli faccia capire che non scherzi.”

Nadia aveva risposto di sì, che gliela avrebbe fatta pagare. Ma sapeva che non sarebbe riuscita a stare lontana da Luciano per più di qualche sera.

Di notte le piaceva osservarlo mentre dormiva, se ne stava rannicchiato in posizione fetale, respirava dolcemente, l’alito appena percettibile, sembrava volerle dimostrarle che lui poteva essere anche così. Nadia rimaneva a fissarlo per ore, fino a che al mattino si svegliava e lui era ancora lì. Non avrebbe potuto stargli lontana a lungo, col pensiero di aprire gli occhi e non trovarlo più.

Guardò l’amica che le fece cenno di seguirla in camera.

La casa era grande, sei locali oltre il bagno e la cucina, divisi simmetricamente da un lungo corridoio.

La camera dove dormiva Isolina era stata un tempo quella dei genitori, dentro c’erano ancora un grande armadio a cinque ante con gli intarsi e le decorazioni in madreperla, e il letto matrimoniale. Nadia e Isolina ci si sedettero sopra con un salto, poi risero. Avevano preso l’abitudine di chiacchierare su quel letto sin da ragazze. Isolina si acciambellava accanto a Nadia e iniziava a parlare fumando una sigaretta dietro l’altra.

Aveva confidato a Nadia che un giorno la madre era uscita dalla camera matrimoniale ed era andata a dormire nell’ultima stanza in fondo al corridoio. Dopo poche ore il padre aveva fatto la stessa cosa e si era trasferito in quella accanto alla sala. Avevano chiuso entrambi la porta a chiave e non si erano più parlati per quarant’anni. Poi una notte la madre aveva chiamato il marito e gli aveva chiesto di farle una camomilla. Dopo qualche ora era morta.

Isolina aveva stretto gli occhi.

“Mio padre le è sopravvissuto per soli sei mesi. Era depresso, sembrava che senza mia madre la sua vita non avesse alcun significato”. Aveva tirato su col naso, stizzita, e guardato Nadia come se fosse un’extra-terrestre. “Non capirò mai il mistero della coppia” aveva brontolato.

Anche adesso lo stava borbottando. Tirava brevi boccate da un mozzicone di sigaretta che aveva già spento e riacceso due volte.

“Non ti capisco, come fai a sopportare Luciano? Sei forse masochista?”

Nadia seguì le volute di fumo nell’aria, poi le vide smarrirsi negli intarsi del grande armadio.

“E’ che non so stare senza un uomo”, rispose.

 

Non era la prima volta che Nadia dormiva in casa d’Isolina. Era già successo altre volte. Quante? Nadia non se lo ricordava. Di certo erano parecchie, visto che lei ricorreva all’ospitalità dell’amica quand’era in crisi con Luciano.

Isolina l’ospitava nella camera in fondo al corridoio, quella ch’era stata di sua madre. Era una stanza disadorna; un letto singolo, un tavolino, un armadio e una poltroncina Luigi Filippo ricoperta di raso verde. Scavate nel muro c’erano due nicchie dove la madre conservava le foto dei propri morti. La donna aveva l’abitudine di metterci davanti un lumino acceso, e verso la fine, quando ormai l’arteriosclerosi era dilagante, aveva rischiato due o tre volte di mandare a fuoco la casa.

Isolina le parlava della madre con una smorfia di disprezzo. Nadia la ricordava a malapena, una signora pallida, con i capelli biondi, perennemente affacciata alla finestra.

Isolina scivolò giù dal letto e Nadia la seguì. Sul pavimento i tacchi dell’amica navigavano silenziosi. A Nadia venne in mente un elfo dei boschi, i piedini sottili,  piccolo e leggero.

D’un tratto si vide in quella camera girarsi e rigirarsi nel letto per ore pensando a Luciano. Perché era venuta lì? Se andava via subito forse faceva in tempo a rientrare a casa prima di lui. Gli avrebbe buttato le braccia al collo, gli avrebbe chiesto di ricominciare.

Undici. Dodici. Come d’abitudine, aveva contato i passi. Guardò l’amica senza capire. Isolina si era fermata davanti ad un’altra stanza.

“In camera di mia madre c’è troppo casino, sto facendo un cambio degli armadi e sul letto ci sono tutte le mie cose. Anche per terra” aggiunse l’amica con un sorriso. “Lo sai quanto sono disordinata, se mi ci metto! Molto meglio che tu dorma qui.”

Era la prima volta che Nadia entrava lì dentro. Il locale era lungo e stretto con la finestra che s’affacciava sulla strada. Era arredato semplicemente: un letto, un comodino con un’abat-jour, un armadio verde a due ante. Sul muro c’erano appesi due quadri, rappresentavano entrambi dei pescatori in mezzo a un mare in burrasca. Tutto era normale, pacato e dimesso come nel resto della casa. Nadia si voltò verso l’amica. “Me ne vado”, le disse.

Isolina andò verso l’armadio, lo aprì, prese una pila di biancheria, la esaminò con calma, poi scelse due lenzuola pulite e Nadia capì di non aver aperto bocca. Desiderò ardentemente riuscire a dire quelle parole, “me ne vado”. Mi spiace, mi sono sbagliata, avrebbe aggiunto, non voglio stare lontana da Luciano una sola notte. Grazie di tutto e arrivederci.

Non voleva dormire in quella stanza. Eppure rimase impassibile a guardare l’amica che metteva il lenzuolo sul letto, sistemava con precisione gli angoli, prima un triangolo e poi un altro, li rimboccava sotto il materasso, prendeva l’altro lenzuolo, lo piegava all’altezza della testa, si alzava a esaminare l’effetto, la guardava puntando in alto il viso bianchissimo.

“Come lo vuoi il cuscino, duro o soffice?”

“Me ne vado”, riuscì a dire Nadia.

 

Quella sera mangiarono un risotto agli scampi e una frittura di pesce. Isolina aprì una bottiglia di bianco, un Greco di Tufo che teneva da parte per le grandi occasioni.

“Neanche per Oliviero, gran cazzone in quanto fornito di grande cazzo, ho voluto aprire questa bottiglia! Ma per un’amica che sta per rinascere ne vale la pena!”

Quando finirono la bottiglia passarono al whisky. Nadia rideva. Tutto le sembrava magnifico. Le girava la testa e lei rideva. Misero su un walzer e Isolina cercò d’insegnarle a ballare. Tentò di condurla per la sala muovendo i passetti a tempo “un due tre, un due tre!“ ma a Nadia sembrava di essere abbracciata a un buffo esserino che si agitava sbuffandole sotto le tette, e scoppiava a ridere di continuo.

Luciano non esisteva più, era diventato meno di quel soffio che le arrivava proprio in mezzo ai seni, tiepido, ma innocente. Meno doloroso di un bacio.

 

Si addormentò subito profondamente. Ogni tanto la testa le girava, lei cercava di aggrapparsi a qualcosa, barcollava, tentava di fermare la stanza, ma questa era peggio di una giostra, le ruotava intorno vorticosa, e lei era come una trottola che ci girava nel mezzo. Allora respirava profondamente, fino a che tutto non si calmava. Dormì ininterrottamente per ore.

Nella stanza faceva caldo. Nadia sentiva addosso l’aria umida della notte incollarle i capelli e le cosce col suo tocco appiccicoso; nel sonno avvertiva il proprio sesso madido di sudore.

Le parve che una porta sbattesse e si svegliò. Sentì lo stimolo della pipì e si guardò in giro, cercando d’orientarsi.

La stanza era completamente al buio, dalle imposte chiuse non passava neanche un filo di luce. Nadia puntò i gomiti e si sedette, intontita. La pipì le premette dolorosamente contro la vescica. Accidenti, non l’avrebbe tenuta a lungo. Mise le gambe giù dal letto. Dove cavolo era la porta?

Cercò di ricordarsi la disposizione dei mobili. Il letto era contro la parete di sinistra, appena si entrava, con la testiera rivolta verso la porta. Quindi l’entrata doveva essere sulla sua destra, appena dietro di lei.

Si alzò e mosse un passo. D’istinto tese le braccia in avanti per sentire se c’erano ostacoli. Le parve di nuotare in un mare profondo e le venne in mente la volta ch’era caduta in piscina di notte, in una villa di alcuni conoscenti, loro erano ubriachi e lei annaspava in un liquido scuro e senza rumori, non aveva punti di riferimento, soltanto quella massa buia che l’attorniava.

Avanzò ancora di due passi. Non capiva dove stava andando, si muoveva e basta, doveva attraversare la stanza, da qualche parte sarebbe arrivata. A un tratto si fermò. Il silenzio era totale. Eppure c’era qualcuno dietro di lei.

Un sudore freddo le ghiacciò la schiena. Tese le orecchie. Niente. Solo il frastuono del suo cuore. Ascoltò meglio. Attorno a lei un brulichio sordo, come di qualcosa in fermento. Dunque era quello che aveva sentito, forse erano i mobili, i mobili sono fatti di legno, sono cose vive, ogni tanto vibrano, si agitano, si assestano. Che stupida, di che aveva paura.

Fece un altro passo e si fermò di nuovo. Questa volta ne fu sicura: era proprio dietro di lei. Vicinissimo, le labbra quasi appoggiate al suo collo. Il respiro le solleticava la nuca. Si sentì nuovamente gelare. L’altro stava immobile, respirando appena.

Un uomo, pensò lei. Giovane.

Sentiva le ginocchia cederle ma non riusciva a staccarsi di un millimetro da quell’alito tiepido. D’improvviso seppe che lui aveva voglia di baciarla. Seppe anche – non era in grado di spiegare come – che l’aveva attesa a lungo, e ora avrebbe aspettato. Cosa? Un suo cenno di assenso?

Per un tempo interminabile nessuno dei due si mosse. D’un tratto Nadia pensò a Luciano, a Luciano che la salvava e la proteggeva, vide le sue mani forti, e poi d’un tratto le vide sul suo corpo nudo, le vide sul suo ventre e poi vide i lombi di Luciano che si muovevano sopra di lei. E nello stesso istante intuìche il giovane sapeva. Tutto.Allora urlò.

Il grido le rimase ancorato in gola. Digrignò i denti e tentò di staccarsi da lui. Fece appello a tutte le sue forze. Urlò ancora. Poi si mise a correre.

Sbatté contro il letto. Allungò un braccio, incontrò l’aria. Allora si appoggiò alla parete e seguì a tastoni la strada verso l’interruttore. Quando ne sentì lo spessore liscio e compatto le sue dita si contrassero. Premette il tasto. La luce esplose, lei ne fu accecata.

Si voltò a guardare.

Nella stanza non c’era nessuno.

 

Isolina le porse la tazza col caffelatte. “Bevi che è caldo!” le disse. Non si era ancora lavata la faccia e aveva gli occhi sporchi di cispe. Nadia ringraziò e le prese la tazza dalle mani. La sollevò sino alla bocca e rimase con le labbra appoggiate sulla porcellana. Le dava un piacere fisico sentirla liscia e delicata tra le labbra.

“Che fai, non bevi?” la sgridò Isolina. Nadia la guardò, i suoi occhi si fermarono sulle palpebre dell’amica, poi scivolarono via.

“Congiuntivite”, le disse Isolina. “Ogni primavera me la becco!”

Nadia si sforzò di essere allegra. “Compra dell’Echinacea per uso oftalmico. Funziona che è una meraviglia! In tre giorni guarisci.”

L’amica scosse la testa e lei la osservò di sottecchi.

Aveva la pelle rugosa come quella di una vecchia, tante linee sottili le dividevano la faccia in minuscole sezioni. Ogni sezione presentava degli strati flosci, privi di sostegno. Sotto le mandibole la pelle le cedeva e cascava in giù.

Rabbrividì. Anche lei in quindici anni era invecchiata tanto?

L’amica le mise davanti dei biscotti e un barattolo di marmellata. “Mangia!” le ordinò, “è fatta con pomodorini verdi, l’ho preparata per un uomo che non l’ha mai voluta assaggiare.”

Rise mostrando i dentini aguzzi. Li aveva ancora perfetti. Poi scosse la testa, inseguendo qualche suo pensiero. Stette lì finché non vide Nadia spalmarsi un biscotto con la marmellata e mangiarlo, poi si decise a lasciarla sola. Si allontanò verso il bagno. Camminava un po’ ingobbita, uno scialletto di lana recuperato chissà dove sulle spalle, dalla vestaglia corta uscivano le gambe bianche e secche, una nonnina perfetta per una fiaba, pensò Nadia.

Notò che in casa l’amica non usava più i tacchi. Chissà se li metteva almeno per uscire. Forse in quei quindici anni aveva rinunciato a sembrare più alta.

Le venne la malinconia e non riuscì a mandare giù il caffelatte. Isolina tornò poco dopo: indossava una maglia celeste sbiadito e dei jeans neri; sulle labbra aveva messo un rossetto color perla che la faceva sembrare ancora più vecchia, in viso era tutta bianca, pelle, bocca, occhi; bianca sino ai capelli.

Nadia le sorrise. “Stai benissimo” disse.

L’amica la guardò compiaciuta. “Mia cara, bisogna mantenersi in forma per piacere agli uomini!” Si toccò le cosce.” Guarda qui, neanche un filo di cellulite! Stagne e sode! Se non andassi in palestra a quest’ora sarei più larga che lunga, e i maschi col cazzo che mi darebbero l’uccello!”

La battuta involontaria la fece ridere.

“Ohi, ohi! sono una vera poetessa!”

Nadia rise per compiacerla, ma faticava a non urlare. Isolina non si rendeva conto di essere patetica?  Una vecchia patetica che scimmiottava le ventenni. Lei non aveva voglia di stare al gioco, di parlare di cazzi e di scopate come se un’intera legione di maschi fosse pronta a gettarsi ai loro piedi. Non c’erano più legioni di maschi vogliosi. Non c’era più niente.

Isolina si versò il caffè. Teneva la schiena bassa, i seni le penzolavano in giù, come bestiole morte. Nadia distolse lo sguardo. Si sbirciò nella vetrina della credenza e lo distolse di nuovo. Aveva cinquantacinque anni. Cinque meno d’Isolina, ma il tempo era passato impietoso anche per lei.

L’amica le si sedette davanti, spostò la tazza di lato e poggiò i gomiti sul tavolo. “Allora” le chiese, “va meglio?”

Sotto la cipria la pelle era tumefatta.

“Sì” rispose Nadia.

 

Il pomeriggio uscirono. Isolina chiacchierava e Nadia contava i passi. Ma non funzionava più, Luciano le era sempre davanti, le spalle diritte e il fare contrito mentre le diceva che se ne andava, ch’era finita. Gli dispiaceva, oh come gli dispiaceva al bastardo per la sofferenza che le stava procurando, ma si era innamorato, e guarda caso l’altraera più giovane, certo non di pochi anni, non l’avrebbe di sicuro lasciata per una coetanea, sarebbe stato troppo originale per il gran figlio di puttana, no, la troietta aveva ventinove anni, venti-nove-anni, soltanto ventisei meno di lui, una fighetta tutto sommato ancora giovane, quasi di primo pelo, e ora le diceva tutto contrito che doveva compatirlo, perché alla sua età un amore del genere si può solo sognare, e visto che lui non stava sognando ma ce l’aveva tra le mani non sarebbe stato così fesso da lasciarselo scappare, lei doveva capire – tanto lui se ne andava lo stesso – che un amore così a cinquantatre anni riempie la vita, rimette in funzione gli ormoni, fa alzare ogni cinque minuti l’uccello, e su questa cosa – lei era sicuramente d’accordo – non c’era niente d’aggiungere.

A Nadia erano venuti in mente i loro sporadici incontri sessuali, si era ricordata di quella volta che, per la disperazione, si era iscritta a un corso di danza del ventre e una sera, vestita da baiadera, aveva cominciato a ballargli davanti; Luciano per un po’ era rimasto a osservarla, poi aveva preso un cuscino e l’aveva messo sul divano, le aveva detto che se voleva fare l’amore bastava dirlo, non c’era bisogno di tutte quelle cazzate. Lei era uscita di corsa dalla stanza.

Avrebbe voluto vomitarglieli addosso, quei ricordi, ma quando riuscì ad aprir bocca disse soltanto, “A me sta bene.”

 

Per chiacchierare si erano sdraiate sul letto matrimoniale. Isolina non l’aveva mai cambiato. Anche l’armadio era sempre lo stesso, con gli intarsi nel legno e le decorazioni di madreperla.

“Troverai un altro uomo, sei ancora giovane,” le stava dicendo. “Adesso ti sembra che il mondo ti crolli addosso, ma vedrai che col tempo passerà. Ne puoi trovare di meglio, sulla piazza!”

Si guardò il corpo scarnito.

“Sei bella, tu.”

Era la prima volta che glielo diceva da quando si conoscevano. Nadia la guardò sorpresa.

“Che credi, che non mi veda? Non riesco neanche a guardare la mia faccia allo specchio. Sono diventata vecchia, tesoro. Vecchia. Ormai sono trasparente, passo e non esisto, nessuno si volta. Tu, invece… non hai visto come ti guardavano per strada?”

No, Nadia non aveva visto.

“Sono miope” rispose, e Isolina rise.

Aveva l’alito che puzzava di fumo. Nadia distolse il viso.

“Perché non ti fermi a dormire da me?” le chiese a un tratto Isolina. “Potremmo vivere insieme per un po’, finché non ti passa la malinconia.”

Nadia scosse la testa.

“Che vai a fare a casa”, insistette l’altra, “Lui non c’è più. Staresti tutto il tempo a piangere e a maledirlo.”

Si allungò verso di lei, la guardò rassegnata, non chiedeva, non desiderava niente, una vecchia, una creatura dei boschi, un bambino innocente, che cosa era mai, Isolina?

“Mi sento terribilmente sola” disse ancora, “Rimani. Ti prego.”

 

Isolina si fermò davanti alla stanza e Nadia trasalì. Dodici,aveva contato.

Erano state a cena al ristorante e non appena rientrate in casa si era ritrovata suo malgrado a contare i passi. Di colpo ricordò il terrore di quella notte. In quei quindici anni di lontananza l’aveva rimosso, ma ora l’incubo le tornava alla mente.

Isolina aprì la porta. La camera era completamente cambiata. Era arredata con mobili moderni, di un bel colore biondo, forse acero; davanti al letto c’era un divano ricoperto di un tessuto a disegni orientali. Alla finestra delle tende in lino, ricamate al centro con losanghe, filtravano la luce del tramonto, rendendola soffusa. Sul lato destro un grande armadio quattro stagioni veniva investito dalla luce rosea, e splendeva, solitario.

Sul muro erano appesi dei poster, uno di un complesso musicale che Nadia non aveva mai visto, facce stralunate con i capelli rasati, l’altro col papa che si fumava un joint colossale.

Guardò l’amica senza capire.

“I mobili sono di Patrizia, la figlia di mia sorella Anna”, le spiegò Isolina. “Prima conviveva con un ragazzo ma poi è finita. Li ha portati qui insieme a tutte le sue cose ma non ci sta mai, è sempre in viaggio. E’ iscritta all’università, vuol fare l’antropologa. Adesso si trova in Cambogia, dice che laggiù c‘è molto su cui indagare. Sarà. Fino ad adesso ha dato solo quattro esami. A me sembra che i viaggi siano solo scuse per fare un cazzo.”

La guardò con un sorriso stanco. “Però non posso farti dormire qua dentro, è tutta roba sua. Mi spiace perché è la camera più bella della casa.”

“Non ti preoccupare”, rispose Nadia, “a me va bene da qualsiasi altra parte.”

Purché non sia questa, avrebbe voluto aggiungere.

Isolina la condusse in fondo al corridoio. Aprì la porta della stanza che una volta era stata della madre.

“Qui è tutto sempre in ordine”, le disse, “la tengo esclusivamente per gli ospiti. Nelle altre ci bazzico di tanto in tanto, lascio in giro le mie cose, così mi sembra che con me ci sia sempre gente.”

La guardò dal basso in su e a Nadia venne voglia di prendersela in braccio e di portarla via, lontano da lì.

 

Quella notte non riuscì a prendere sonno. Si girava e rigirava nel letto pensando a Luciano. Avesse almeno avuto un figlio da lui, invece niente, era sterile come lo era la sua vita, una corsa continua per arrivare chissà dove. Lo rivide com’era negli ultimi tempi: ogni pomeriggio tornava a casa, si sedeva e sfogliava il giornale; neanche un pensiero per lei, una parola.

Era invecchiato, Luciano. Rigido e duro come un pezzo di legno. Nadia lo guardava a lungo, voleva che si sentisse osservato, che s’incazzasse, che capisse che lei non ne poteva più. Invece lui continuava imperterrito a scorrere i titoli del giornale. Forse aveva ragione Isolina, era lei a guadagnarci da quella separazione. Solo che era dura. Trent’anni di matrimonio, di litigate, di riconciliazioni. Trent’anni di vita, e poi adesso più niente.

Stette immobile nel letto a pancia in giù per una buona mezzora. Poi sentì lo stimolo della pipì e si alzò. Le tapparelle le aveva lasciate sollevate per potersi orientare al buio. Uscì in corridoio, passò davanti alla camera d’Isolina. La porta era aperta e lei sentì un russare deciso. Isolina aveva bevuto parecchio quella sera. Anche lei aveva bevuto molto, sperava di addormentarsi come un sasso e invece era ancora in piedi, sveglia come un grillo, senza sapere che fare. Entrò in bagno e si sedette sul water. Ascoltò il tintinnio della pipì nella tazza di ceramica, lo ascoltò finché non lo sentì cambiare nota, diventare più acuto. Poi si alzò, uscì nel corridoio, passò di nuovo davanti alla camera d’Isolina. L’amica continuava a russare, soddisfatta. Nadia proseguì e si ritrovò davanti alla stanza.

Rimase ferma per un po’. Poi abbassò di scatto la maniglia.

La camera era completamente al buio, Nadia stette in ascolto col cuore che le batteva impazzito, poi si decise e fece un passo avanti. Un altro.

Prima sentì il brulichio: cresceva, vibrava in tutta la stanza rimbalzando sui muri. Fu certa che lui le era dietro dal calore che avvertì sulla nuca, riconosceva il suo alito gentile e discreto. Sentì la sua voglia di baciarla, la bocca vicinissima, e provò l’impulso di voltarsi. Poi fu cosciente del buio, di quell’alito, di quella stanza. Si girò di scatto e corse verso la porta che vedeva inquadrata dalla fioca luce del corridoio, cercò a tastoni l’interruttore, lo premette.

I colori nella stanza esplosero, come l’altra volta. Nadia socchiuse le palpebre.

Anche la luce le sembrò malata.

 

Si alzò con un gran mal di testa. Dalla finestra entrava un sole impietoso. Nadia mise i piedi fuori dal letto e stette qualche minuto con la testa penzoloni, respirando lentamente per mandare via il dolore. Di colpo le venne in mente la stanza. Che cosa era successo dopo che aveva premuto l’interruttore? Non ricordava niente.

Si affacciò alla finestra. Sotto la luce del giorno il mondo era vero e rassicurante. Probabilmente aveva sognato: la stanchezza, il vino, il dolore per Luciano, tutto aveva concorso per tirarle un brutto scherzo.

Si alzò per andare in bagno ma fu attratta dall’odore di caffè appena fatto. Isolina era già in piedi con la tazza in mano. Come la vide le sorrise.

“Eccoti qui, dormigliona! Sai che ore sono? Le undici e mezzo!”

Nadia improvvisò un tono allegro. “Tutti i sabati dormo oltre mezzogiorno, quindi ti è andata bene.”

Isolina non replicò. Le versò una tazza di caffè e gliela porse. Teneva il viso un po’ discosto, lo sguardo basso, ma nonostante quello Nadia si accorse che aveva gli occhi segnati e gonfi.

“Non hai provato l’Echinacea?”

L’altra scosse la testa. “Non li ho così per la congiuntivite.”

Nadia sorseggiò appena il caffè. “Che ti succede?”

“Mi sento finita”, rispose Isolina. Lo disse usando lo stesso tono dolce dell’amica ma quando riprese a parlare era ostile, e Nadia capì che tratteneva a stento l’irritazione.

“La chiamano depressione, mia cara. Proprio così. Sono depressa, esaurita, spompata sino al midollo. Con te ho sempre fatto finta di niente, non volevo annoiarti con le mie storie, ma a volte mi sembra d’impazzire. Non me ne frega più un cazzo di uscire, di vedere gente. Tanto a chi gliene importa di me? Sono sola, amica. Sai a quanto mi serve andare in palestra! Non c’è più un uomo che mi cerchi, che s’interessi di come sto, se sono viva o morta. Sono finita, kaputt. Isolina non esiste più, è svanita nel nulla.”

Nadia si abbassò verso di lei per farle una carezza; la pelle di Isolina le parve malata e si fermò.

“E’ che sei in pensione da poco, ti devi ancora abituare.”

Si sentiva a disagio. Era stata sempre Isolina ad aiutarla. Sempre lei la più forte.

Isolina continuava a tacere. Nadia si raddrizzò. “Io t’invidio, invece! Hai tutto il tempo che vuoi davanti a te! Cinema, libri, viaggi… devi solo imparare a organizzarti.”

Poi aggiunse una cosa che non avrebbe mai voluto dire.

“Ho deciso che vivrò con te, certo per un breve periodo, giusto il tempo di darci una mano a… venirne fuori. Ne abbiamo bisogno entrambe.”

La guardò per vedere se i suoi discorsi facevano effetto.

Isolina se ne stava sempre con gli occhi bassi, ma dalla posizione tesa delle spalle e della testa Nadia capì che la stava ascoltando attentamente.

Non aveva mai visto Isolina così. Da quanto la conosceva? Erano praticamente nate nello stesso condominio ma aveva cominciato a frequentarla solo da ragazza: quand’erano bambine manco si guardavano, cinque anni di differenza sono un abisso. Se la ricordava sempre allegra, sempre indaffarata con i suoi ometti, come li chiamava lei, ne aveva spesso due o tre per le mani e si divertiva un mondo a farli ingelosire. Nadia le invidiava tutta quell’energia. Un grillo che saltava dalla mattina alla sera, mai stanco. Adesso passava le ore a letto. Si presentava al mattino con gli occhi stralunati e Nadia non aveva il coraggio di dirle niente. A volte abbozzava un tentativo, voleva farle capire che ognuna di loro aveva la propria vita e che era ora che se la riprendessero. Lei almeno lo voleva; non erano mica sposate, cazzo! Isolina le domandava tranquilla se per caso voleva mollarla, e Nadia rimandava.

“Domani”, si diceva, “Lo faccio domani. E’ sicuro.”

 

“Domani me ne vado”.

Isolina lo disse d’un fiato, senza guardarla.

Nadia era appena rientrata dal lavoro e stava e leggendo il giornale. Da quando Luciano l’aveva lasciata le piaceva sentire il rumore che facevano le pagine sfogliate.

“Dove?” chiese distrattamente.

“In Veneto. Parto domani mattina.”

Lei alzò gli occhi e guardò l’amica. “Come?”

“Me ne vado” ripeté Isolina, “ti lascio libera.”

Nadia chiuse il giornale e lo piegò in due. “Che vuol dire?”

“Sei stata gentile a starmi vicina in questo periodo, ma purtroppo non ce la faccio. Devo andar via.”

Nadia spostò il giornale di lato e la guardò attentamente. Ancora non capiva.

“Vuol dire che lasci la tua casa? E per andare dove?”

“Ho degli zii in campagna, dalle parti di Treviso. Hanno una fattoria con mucche e galline. Lì c’è aria buona e tanta natura, quello che mi occorre. Silenzio e frutta da raccogliere sui rami. Latte fresco appena munto, con la panna sopra spessa un dito. Mi aiuterà a guarire.”

“Come puoi esserne sicura?” Era stordita da quella novità improvvisa, e non sapeva come regolarsi.

“Perché è stato così anche dopo la morte di Manlio.”

”Manlio?” ripeté Nadia. Le sembrava che Isolina stesse recitando una parte e non capiva che ruolo avesse riservato a lei.

“Mio fratello”, spiegò Isolina.

Le stava davanti, ingobbita, il viso puntato in alto, eppure in quel momento aveva un’espressione così intensa che le sembrò un gigante.

“Non me ne hai mai parlato”.

“No”, confermò Isolina.

Nadia attese.

“Manlio era il maggiore, il mio fratello preferito. Sin da bambina ero innamorata pazzamente di lui. Quando morì mi venne un terribile esaurimento nervoso. Mio padre decise di mandarmi per qualche mese dagli zii, probabilmente temeva che facessi una pazzia.”

Nadia non commentò.

“Anche i miei fratelli soffrirono molto, ma per me fu diverso. Manlio era più di un fratello per me.”

Guardò dritto negli occhi l’amica. “Lui per me eraun uomo,se capisci che cosa voglio dire.”

Fece una smorfia. “L’unicouomo, hai capito?”, ribadì stizzita.

Nadia assentì piano. Cercava di muoversi adagio, per non fare un gesto sbagliato.

“E’ morto all’età di venticinque anni; io ne avevo quattordici”, riprese Isolina. Continuava a guardarla negli occhi con aria di sfida.

“E’ stato male una sera, improvvisamente. Lo hanno portato all’ospedale e lì gli hanno diagnosticato il diabete. Era già entrato in coma. Nessuno di noi se lo aspettava. Era sempre stato bene.”

D’un tratto prese una sedia e la mise vicino a quella di Nadia. Si sedette e guardò il giornale. “Quale altre belle notizie riportano oggi?” domandò. Sembrava che per lei il discorso fosse chiuso.

Nadia riaprì il giornale e glielo porse. In quel periodo i quotidiani non facevano altro che parlare di guerre e di terrorismo.

“Stasera c’è pesce spada alla griglia con rucola e pomodorini”, esclamò Isolina mentre scorreva i titoli. “Ti va bene?” Poi senza neanche attendere risposta le disse che l’aveva già preparato, bastava scaldarlo. Nadia continuava a tacere.

Isolina lesse in silenzio l’articolo su un disastro aereo avvenuto anni addietro. L’aereo era caduto in mare, e il giornalista riprendeva l’ipotesi che fosse stato centrato da un missile americano mentre cacciava un mig libico.

“Siamo una colonia”, borbottò Isolina. “Fanno e disfano quello che vogliono sulle nostre teste, come fossero a casa loro.”

“E’ solo un’ipotesi”, le ricordò Nadia.

Isolina la guardò furiosa. “Siamo una loro colonia”, ripeté.

Stettero tutte e due a guardare la fotografia sul giornale. Accanto all’ala dell’aereo si vedeva galleggiare un mucchio informe di stracci: dei resti umani, probabilmente.

Per un po’ rimasero in silenzio a osservare la foto. Nadia guardava quei miseri resti e d’un tratto si ritrovò sott’acqua, come quella volta in piscina. Il mare era scuro, la circondava e la schiacciava. Lei annaspava come un cosmonauta nello spazio privo d’aria. Si sentì perduta. Poi vide galleggiare sopra di lei le mani di un uomo e con fatica cominciò a risalire, puntava verso quel corpo silenzioso che le indicava l’unica via di salvezza. Quando vide il cielo fu contenta di essere viva. Una gioia in sottofondo, come una melodia che veniva da lontano.

Isolina chiuse bruscamente il giornale.

“I dottori hanno visto che non c’era più niente da fare e ce l’hanno rispedito a casa. Lo abbiamo messo nel suo letto e l’abbiamo vegliato per due giorni. E’ morto senza riprendere conoscenza.”

Alzò il viso bianco e col mento indicò il corridoio. “E’ morto nella stanza dove adesso sta Patrizia.”

Nadia sul momento non provò niente. Avrebbe giurato che lo sapeva, che l’aveva sempre saputo. Chiuse gli occhi e ricordò quel cenno timido e disperato dietro la sua nuca, la voglia di lui di baciarla.

“Dormiva lì con sua moglie”, disse ancora Isolina.

“Sua moglie?” sussultò Nadia.

“Vivevano a casa nostra. Si erano sposati da poco e non avevano i soldi per prendersi un appartamento in affitto. Però lavoravano sodo tutti e due, speravano di riuscire ad andarsene entro qualche mese. Io invece speravo solo che lui rimanesse qui, per sempre.”

S’interruppe e per la prima volta ebbe un’espressione colpevole.

“Quando tornai dal Veneto trovai ancora mia cognata in casa. Per un po’ rimase, faceva sempre parte della famiglia. Poi, col tempo”… Isolina fece una risata amara. “Che vuoi, era giovane. Dopo sei mesi trovò qualcun altro e se ne andò.”

“Che fine ha fatto?” le chiese Nadia.

“Non l’ho più rivista”, rispose Isolina. “Di certo l’avrà dimenticato in fretta. Non poteva amarlo quanto l’amavo io.”

Abbassò la testa sul tavolo e cominciò a piangere disperatamente. Le spalle erano esili come le scapole di un uccello e si agitavano in modo ridicolo. Nadia non riusciva a muoversi neppure per farle una carezza. Eppure non era triste; ascoltava la musica crescerle dentro, si sentiva bene, finalmente, e voleva assaporare quella leggera euforia che la riconsegnava alla vita.

“Sapessi quante volte mi sono detta che era colpa mia, se non fossi stata così egoista da volerlo tutto per me… E’ Dio che mi ha punita!” borbottava Isolina tra i singhiozzi.

“Ma che dici”, esclamò Nadia, e finalmente stese la mano e l’accarezzò.

Continuava a pensare a quella meravigliosa contentezza che aveva dentro e che le faceva venir voglia di ballare, di andare incontro all’aria e di baciarla.

“Nessuno è colpevole dell’amore che sente verso un altro”, affermò decisa.

Poi tradusse in parole l’emozione che stava provando; sperava l’accompagnasse a lungo nei giorni vuoti che aveva davanti.

“Bisogna lasciarsi vivere”, disse a Isolina.

Fece una pausa e rifletté. Poi aggiunse: “Con indulgenza.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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