Fra tutte le date memorabili della mia esistenza, il 1° ottobre del 1935 è senza dubbio una delle più importanti: entrai per la prima volta nella Scuola Elementare di Alfonsine.
Il nuovo ambiente, i nuovi compagni, l’assenza delle giovani suorine, sostituite da insegnanti già anzianotte dal cipiglio severo, il nuovo grembiulino bianco che aveva sostituito quello rosa dell’asilo, la borsa di finto cuoio invece del solito cestello di vimini, mi riempivano il cuore di un’ indefinibile angoscia che si manifestava in quello stringere convulsamente la mano di mia madre. Probabilmente mi rendevo conto che una porta si era chiusa alle mie spalle e che un’altra si apriva davanti a me, che dovevo varcarla ignorando ciò che mi aspettava oltre quella soglia.
Nel vestibolo mi colpì l’ampia scala che portava al piano superiore di quell’austero edificio, così diverso dal piccolo e accogliente asilo che avevo frequentato fino a qualche giorno prima.
Le aule si affacciavano su di un lungo e largo corridoio illuminato da enormi finestre. Regnava ovunque un acre odore d’inchiostro sopraffatto da quello ancor più acre e insistente della creolina, che regnava incontrastato in vicinanza dei gabinetti.
L’aula in cui entrai assieme a una ventina di mie coetanee, spaesate e intimidite quanto me, era occupata da enormi banchi di legno, da una cattedra collocata come un trono su di una predella, da un armadietto grigio e da una nera lavagna sostenuta da un supporto in legno.
Ci guidava una maestra, la signora Poletti, con la quale però rimanemmo una sola mattina, tuttavia bastarono quelle poche ore a rendercela simpatica; riuscì infatti ad affascinarci con tre noci avvolte in carta colorata, bianca, rossa e verde: i colori della nostra bandiera, come lei ci fece notare.
Ma la mattina seguente, ecco la prima sorpresa, entrò in classe la maestra Adalgisa Pescarini, un’anziana signorina dai lisci capelli brizzolati, che le incorniciavano il viso già un po’ grinzoso. Con lei rimanemmo per tre anni. Dei suoi metodi di insegnamento non ricordo gran che. Forse non ero un’alunna molto attenta, era più la persona ad interessarmi, non tanto ciò che essa diceva; non perdevo un solo suo gesto né mi sfuggì una sua consuetudine, quella di togliersi le scarpe appena entrava in classe, per calzarne un paio senz’altro più comode, ma certamente meno decorose: il bianco iniziale si era tramutato in un grigio perlaceo, mentre la parte posteriore della scarpa si era appiattita sul tacco, tanto da farle sembrare un paio di ciabatte e quando girava fra i banchi, spiegando ora la grammatica, ora la storia, ora la geografia, io seguivo con estremo interesse quelle calzature scalcagnate come se da lì e non dalla bocca della maestra dovesse uscire tutto il sapere dell’universo.
Solo il terzo anno delle elementari mi trovò più consapevole e , fortunatamente, un po’ più attenta.
Mi piovve addosso qualche complimento per i primi componimenti ( così allora venivano chiamati i temi ) e conobbi l’orgoglio e l’ambizione; mi piaceva scrivere e suscitare l’ammirazione della scolaresca, a cui la maestra soleva leggere i temi migliori.
Quelli che mi procuravano un vero e proprio tormento erano invece certi cartoncini bianchi di due diverse misure su cui era stampato il motto “ATTESTATO DI LODE”, seguiva lo spazio destinato al nome dell’alunna e alla motivazione per cui il suddetto attestato le veniva assegnato.
Ormai tutte le mie amiche l’avevano ricevuto, solo io non ero ancora riuscita a meritarne uno. Ogni mattina, ancor prima che iniziassero le lezioni, scongiuravo, senza ritegno, la maestra perché mi assegnasse quel giorno il tanto sospirato cartoncino.
“Se lo meriterai, te lo darò!” rispondeva seccata la signorina Adalgisa. Chissà quante volte in cuor suo mi avrà mandata a quel paese, povera donna! Finalmente mi assegnò sì l’attestato di lode, ma quello più piccolo, destinato ai successi mediocri; ciò mi fa ancor oggi supporre che quella concessione sia stata più un sistema escogitato dalla maestra per farmi finalmente tacere, che non un vero e proprio riconoscimento ai miei meriti scolastici.Un ‘altro episodio che mi è rimasto impresso di quegli anni fu quando un mattino
la mamma mi consegnò un frusciante involtino contenente un enorme pasta bicolore, bianca e marrone:” La mangerai nell’intervallo” mi disse, mentre lo sistemavo con cura nella cartella.
Ovviamente quando estrassi, chissà con quanta boria, il misterioso pacchetto, fui subito circondata da parecchie amichette che forse speravano di assaggiare almeno le briciole di quella delizia.
Non prevedevo certo che una di loro, non so se spinta dall’invidia o da un impulso di generosità a mie spese, corresse dalla maestra per dirle che io avevo qualcosa di speciale da offrirle, ma ancor meno avevo previsto che la maestra le credesse sulla parola.
Tutto accadde in un baleno: la vidi avanzare, quasi volando, sulle famose ciabatte verso di me che, nel frattempo, ero ammutolita non so se per la sfacciataggine della compagna o per quella della maestra che, simile ad un avvoltoio, afferrò quel candido e promettente involtino. Non so che cosa mi trattenne dal piangere: forse non volli dare alla dispettosa e intraprendente compagna la soddisfazione di manifestare il mio comprensibile disappunto o forse non me la sentii di mettere in grave imbarazzo la maestra che, dopo tutto, si degnava di accettare il mio modesto quanto involontario omaggio.
Seppi incassare con grande autocontrollo quell’imprevedibile sequestro e, Dio sa, quanto rammarico mi costò quella rinuncia. Ma da quel giorno sia la compagna che la maestra finirono all’ultimo gradino della mia scala di valori.In terza elementare frequentarono, per poche settimane, la nostra stessa classe due ragazzine provenienti l’una da Roma, l’altra da Milano. Il caso le aveva fatte capitare nel nostro paese contemporaneamente, ospiti dei rispettivi parenti, che, per non far perdere loro troppi giorni di scuola, chiesero alla Direzione il permesso di inserirle nella nostra classe.
Sempre per caso si chiamavano entrambe Franca.
Il loro arrivo mi offrì un nuovo motivo d’interesse e aprì una parentesi di maggior disattenzione, nel senso che la maestra io non l’ascoltai proprio più, chiudendo così i miei rapporti, del resto anche prima piuttosto superficiali, con libri e quaderni, per dedicarmi interamente allo studio delle due nuove arrivate.
Erano completamente diverse fra loro sia d’aspetto che di carattere: minuta, biondissima con due intelligenti occhi azzurri la milanese Franca Masoli; alta, bruna, dai pensosi occhi neri la romana Franca Baroni; di carattere aperto e vivace la prima, riservato e timido la seconda.
Anche il loro abbigliamento era per me motivo di grande interesse, infatti, dispensate dall’obbligo d’indossare il grembiule bianco, sfoggiavano ogni giorno indumenti diversi, di un’eleganza a me sconosciuta: golfini di lana d’angora, abitini di morbido velluto con polsini e colletto di pizzo bianco, camicette di seta o di cotone scozzese; pareva che fra loro si fosse ingaggiata una tacita gara alla quale noi timide scolarette di provincia assistevamo piene di ammirazione per entrambe.
Portavano i lunghi capelli raccolti in due trecce arrotolate con cura e puntate all’altezza delle orecchie: insomma somigliavano proprio a due stupende bambole.
Mi sentivo onorata se mi rivolgevano la parola o se mi chiedevano a prestito un pennino o la gomma. Come erano diverse da tutte noi !
A casa non facevo che parlare di loro…
Anche la maestra subiva il fascino di quelle nuove scolarette che, fra l’altro, erano molto brave; le interrogava ad ogni momento, le elogiava, diede loro nel giro di una settimana quell’attestato di lode cui io aspiravo da mesi con scarse probabilità di ottenerlo; perciò, se poc’anzi ho detto che io avevo chiuso con la maestra, tutta presa com’ero dalle nuove arrivate, altrettanto aveva fatto la maestra con noi genietti indigeni; non ci degnava più di una parola se non per condannare la nostra negligenza.
Chissà, povera donna, forse sognava un’intera scolaresca fatta di Franche Masoli e di Franche Baroni; invece quando esse se ne andarono, dovette adattarsi di nuovo a noi ochette di provincia, pigre e maldestre.
Le due Franche avevano portato nella nostra aula di provincia un’ondata di novità cittadina che tutte avevamo avvertito, ma alla loro partenza di quell’ondata restò ben poco, se non qualche ricordo subito sbiadito.
Tornò il grigiore giornaliero che ben si addiceva a quello dei nostri abiti troppo abbondanti che ci rendevano irrimediabilmente goffe e provinciali.Frequentai la quarta elementare sotto la guida di una nuova maestra; Dio mio, nuova per modo di dire, infatti a quel tempo doveva aver già passato i sessant’anni.
Si chiamava Eugenia Bonfiglioli. Del suo aspetto ricordo una nuvola di capelli bianchi, che le conferiva un’espressione eccentrica, ma nello stesso tempo importante e dignitosa e le labbra molto sottili, che, quando si stiravano in un raro sorriso, lasciavano intravedere una dentatura regolare, ma un po’ giallognola, forse a causa di quelle caramelline di liquirizia che sempre assaporava con evidente soddisfazione e che le profumavano l’alito.
Aveva una figuretta esile, camminava lentamente, strascicando un po’ i piedi; eppure doveva essere una resistente camminatrice dal momento che percorreva quattro volte al giorno il lungo tragitto dalla sua casa alla scuola e viceversa.
Era senza dubbio una maestra brava, ma severa e, quando mi chiamava alla cattedra, non mi risparmiava i rimproveri per i troppi errori che mi erano sfuggiti nei temi o nei riassunti, ma poi ne elogiava, un po’ burbera, i contenuti.
Fu quello l’anno in cui incontrai per la prima volta la paura, non già quella che si prova per i fantastici e misteriosi personaggi che pullulano nel mondo infantile, ma la paura di non imparare qualcosa e di meritare conseguentemente i rimproveri della maestra e gli sberleffi delle compagne, magari perfino di quelle più asine di me.
Il mio non era un timore immotivato, bensì reale e continuamente alimentato da quelli che ancor oggi considero gli unici minacciosi mostri che gettarono un’ombra terrificante sulla mia infanzia; alludo alle divisioni e alle misure di estensione e di capacità coi relativi multipli e sottomultipli.
Delle prime odiavo soprattutto i due termini, dividendo e divisore, che mi gettavano in una totale confusione, successivamente mi smarrivo non appena mi accorgevo che un certo numero non era contenuto esattamente in un altro, perciò dovevo abbassare quello vicino; a questo punto nel mio cervello scoppiava il caos, perdevo il filo del discorso, mi si spezzava la voce e non c’era verso di farmi proseguire.
La maestra mi guardava indispettita e incredula, ma più cercava di farmi ragionare, più la mia mente si chiudeva, sottraendosi ad ogni sorta di tentativi.
tant’è che spazientita, mi costrinse a ricopiare le regole per ben cinquanta volte, senza peraltro ottenere risultati soddisfacenti. Fu per merito di una mia compagna di scuola, ordinata, gentile e carina, ma soprattutto super dotata in aritmetica, Luisa Servidei, se riuscii a capire quegli odiosi meccanismi.
Devo riconoscere che quella cara compagna di giochi ottenne risultati modesti, ma senza dubbio migliori di quelli ottenuti dalla maestra, che alla fine di quell’anno scolastico avrebbe voluto promuovermi anche in aritmetica, stendendo un pietoso velo sulle mie gravi lacune, ma il babbo, tenendo conto che avremmo dovuto trasferirci in un altro paese, dove avrei affrontato una nuova realtà scolastica, la pregò di darmi il voto che meritavo dal momento che era sua intenzione farmi ripetere l’anno.
Prima di lasciare Alfonsine andai a salutarla nella grande e vecchia casa vicino al fiume Senio dove abitava. Aprezzò molto il mio gentile pensiero, mi diede tanti consigli e, al momento di congedarmi, mi fece una lunga e affettuosa carezza sui capelli e in quella carezza avvertii la presenza di un animo gentile che stentai a collegare con l’atteggiamento burbero spesso manifestatosi durante quell’ultimo anno di scuola.
Una risposta a “"Incontri e scontri con la scuola elementare" di Amalia Lilla Pezzi”
Bravissima Amalia a raccontare storia di vita!
Complimenti.
Hai tutta la mia ammirazione e se fossi stata una tua alunna son sicura che anche tu avresti avuto gran piacere di avermi nella tua classe! 🙂