"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte seconda)


marsiglia

III.

Freddo. Buio. Odore boschivo.

Jeans. Torso nudo. Senza scarpe. Una coperta sporca sotto la schiena. Alberi attorno, sopra di me. Un assordante frastuono di pioggia. E il nonsenso.

Ho pochi ricordi della serata precedente. Devo essere svenuto tra le braccia di Marc e ora vago nel mondo dei sogni. Mi ci vogliono parecchi minuti per alzarmi. Controllo le tasche e trovo le chiavi di casa, ma non il portafogli.

Iris, il mio primo pensiero. Forse sono morto, il mio secondo pensiero. Poi torno al primo e mi chiedo se sta bene, se mi sta aspettando, se ha paura.

Getto la coperta sui rami, così da proteggermi dalla pioggia. Qui ha tutta l’aria di essere l’inferno. Appoggio la schiena contro un tronco e chiudo gli occhi, solo per un attimo. Forse li riaprirò a casa. O su un letto di ospedale.

Un rumore improvviso. Un dolore secco dietro la nuca. E ancora supino.

Mi risveglia l’odore del sangue. Sono schiacciato a terra. Ci metto un po’ per accorgermi di essere eccitato. Una donna, o qualcosa che le assomiglia, muove il ventre sopra di me. I capelli sono scuri come la notte e la pelle chiara contrasta con tutto ciò che ci circonda.

Sono dentro di lei. Mi prende le mani e le porta al seno. Stringe con forza, con fame. La testa mi sanguina, intravvedo un liquido rosso scorrere dolcemente sul mio fianco, per perdersi nell’oscurità.

Piove.

Ha seni piccoli ma sodi. Mi sta cavalcando con tale intensità da stordire. Fa scendere le mie mani lungo i fianchi, fino a raggiungere la vita. Continuo a seguirne i contorni, le gambe sono segnate da piccole cicatrici, ma tra una cicatrice e l’altra la pelle è morbida.

Torreggia su di me. Siamo persi nel nulla. Una bolla nell’universo.

Ti prego, non così. Non la prima volta dopo Elodie.

Unisce le mie mani e le blocca dietro la testa. Scende piano, petto a petto. Respiro i suoi respiri, i suoi morsi, la sua voglia.

Mi bacia. Infila la lingua accanto alla mia e la toglie subito. Come ad assaggiarmi.

Si avvicina con la bocca alla terra, accanto alla mia gola, e lecca il sangue. Cerco di spostarla, di alzarmi. Lei continua a infilarsi tra le mie labbra.

La testa mi scoppia. Libero le mani, ma non sposto il suo corpo da sopra di me, non fuggo. La voglio: donna o demone che sia. Sognare, in fondo, non ha mai ucciso nessuno.

Ha cosce lunghissime. Le accarezzo fino ad arrivare al culo. Continuo a spingermi con forza dentro di lei. Il suo sorriso tra una foresta di capelli.

Ok, hai vinto.

Godiamo fino a squarciare la realtà. La coperta cede. L’acqua cade ovunque e finalmente riesco a scorgere il viso. È bellissima e terrificante. Gocce che puliscono il sangue, che purificano la tenda, che accompagnano il mio orgasmo.

Mentre il cielo si apre, mentre piango perché per un istante ho dimenticato il mio passato, mentre la confusione è tale da fottermene di trovarmi in un incubo o nella realtà, lei allunga la mano verso il mio petto. Percepisco le unghie entrare. Superare lentamente ogni strato della pelle, quasi a sfiorare la parete esterna del mio stomaco.

E il piacere si confonde con un profondo buio.

– Alzati, stronzo.

Calcio al fegato.

– Allora, pezzo di merda, ti alzi o no?

Tacco all’altezza delle tempie.

– Per me non duri molto.

Ginocchiata allo stomaco. Con le mani cerco di proteggermi.

Nudo. Ferito. Quasi vivo.

Mi metto in piedi e spalanco gli occhi. Sono tanti. Troppi. Uomini vestiti di tute mimetiche. Vorrei schiacciare il tasto pausa, riprendere fiato, difendermi, afferrare quegli sconosciuti e attaccarli al muro, ma non ci sono muri ed io sono sempre stato più bravo con le parole. Vorrei chiedere cosa sta succedendo, perché la realtà attorno a me continua a modificarsi. Ma mi chiudo a riccio e supplico di lasciarmi in vita.

Continuo a prendermele per un tempo indefinito.

Mi sveglio appeso a un palo. Testa in basso. Gambe in alto. Braccia legate e incrociate sul petto. A una decina di centimetri da terra. Ancora senza scarpe. Solo jeans e un paio di ferite nuove sul dorso. Vorrei toccarmi, per capire se cuore e fegato sono al loro posto, ma non posso fare altro che perdere conoscenza.

E non è mai giorno.

– Tra poco morirai – ancora una voce, proviene da sotto i miei piedi.

Velocità. Disordine. Sequenze impazzite di un film montato a casaccio.

Un uomo vestito di stracci si avvicina. Abbassa la patta dei pantaloni e inizia a urinarmi addosso. Osservo le sue palle da una pessima angolatura. Sento caldo sul collo e l’odore di urina mi penetra le narici.

– Sto sognando, solo sognando – rispondo a fatica, più a me stesso che a lui.

Sorride e se ne va.

Sputo, me la faccio addosso e svengo. In sequenza. Più e più volte.

– E così pensi che questa non sia la realtà? – mi sveglia una voce cavernosa.

Un altro uomo questa volta, dai lineamenti decisi e l’espressione calma. Porta anfibi sporchi di malta, pantaloni verdi, una specie di tunica marrone e il tono di chi è abituato ad avere sempre una risposta.

– Non può essere altrimenti.

– Allora perché piangi?

La testa pulsa sotto il peso del corpo.

– Non può essere altrimenti – continuo a ripetere – è solo un maledetto errore.

– Tu sei David, nessun errore.

– Mi chiamo Davide – sputo fuori.

– Un italiano. Non preoccuparti, qui non siamo razzisti. Per noi sei solo un pezzo di carne.

Lacrime che scendono sulla fronte.

– Ti pensavo diverso, cazzo, sembri un bambino terrorizzato. Mi ero figurato che tu avessi un certo spirito.

Se con spirito intende anima, può anche essere. Certamente non lo confonderei col coraggio.

– Chi sei?

– Non è importante. Diciamo che la gente mi ascolta in questa parte della Foresta.

Conoscono il mio nome e questo non è un bene.

– Perché volete uccidermi?

– Tempo al tempo.

Una donna grassa da far schifo sale su una scala e mi dà da bere.

Sputo il primo sorso, poi le corde vocali iniziano a stare meglio.

– Cosa stai dicendo… – mi rivolgo più a me stesso.

– È questo il problema delle persone come te. Agiscono senza pensare. Non comprendono che tutte le azioni portano in sé delle conseguenze.

S’inginocchia. Mi guarda negli occhi e si accende una paglia. Supera abbondantemente i sessanta.

– Dove siamo?

– Molto lontano.

La lingua è francese. Ma potrei essere ovunque.

– Io ti lascerei anche vivere – continua – m’incuriosisci. Ma sai com’è, a volte bisogna ubbidire a esigenze superiori.

– Ho una figlia. Ti prego, lasciami andare. Non merito di morire.

– Ne sei certo? Tutti noi facciamo scelte ogni giorno che ci fanno meritare la morte e tu non sei da meno. Comunque, buono a sapersi. Che tu hai una figlia, intendo.

Bastardo.

Sento le tempie gonfie come un pallone.

– Mi sembra invece che ci prendi gusto a tenermi qui.

Fa un cenno a una specie di bambino, accucciato vicino a una pianta. In un primo momento ho pensato fosse un cane.

Supera di poco il metro di altezza. Ha capelli neri, lunghi e unti. Raccolti in una coda asimmetrica. È più un animaletto uscito dalla tana. Vestito di briciole d’umanità. Si alza, prende una ciotola di legno e mi lancia in faccia acqua sporca.

Il lavaggio improvviso del viso non mi libera dalla puzza di piscio. Da lì a poco il sangue potrebbe uscirmi dagli occhi.

– Grazie – grugnisco – ora tiratemi giù di qui.

– Non credo proprio.

– Questa tortura durerà ancora molto?

– Può essere. Anche se in realtà non abbiamo ancora iniziato.

Tossisco. La saliva si ferma sulla punta del naso.

– Qual è il tuo nome?

Crea un legame con il tuo carceriere, farà più fatica a infliggerti dolore.

– Non è importante.

Il manuale improvvisato di sopravvivenza non funziona.

Ancora un cenno al bambino e lui corre sotto la mia testa. Si corica pancia a terra. Inarca le braccia e la sua schiena spinge la mia, permettendomi un po’ di respiro.

– Cosa ricordi?

– Poco. Ho preso una sbronza e…

– Intendo da quando sei arrivato.

– Dimmelo tu.

Si avvicina e con calma spegne la paglia su una delle mie sopracciglia.

Odore di strinato.

– Fermo! Fermo! Parlo. Cazzo. Parlo. Ho incontrato una donna, credo almeno che lo fosse. Mi sono svegliato in un bosco da solo e poi lei mi ha…

– Aleksandra, la veggente. L’unica che sa come muoversi e che è sempre tornata.

– Tornata da dove? – chiedo senza rendermene conto, poi chiudo gli occhi e aspetto la punizione. Lui invece sussurra alcune parole al mio orecchio.

– Da ogni luogo dove sia stata.

Poi se ne va.

Il bambino torna sotto l’albero ed io riprendo a sentire tutto il peso del corpo spingere sul poco che è rimasto del mio cervello.

 

IV

 

Rumore di passi.

Arrivano altri uomini. Unti nel viso e infangati fino al ginocchio. Sono tre, quello davanti ha in mano un pugnale da caccia.

Si avvicina. Non supera la mia età, ha capelli rasati ai lati e lunghi sul capo, sporchi come la pece. Lavora con la lama sulla mia gamba destra. Strappa i jeans all’altezza delle caviglie e squarcia il tessuto, scendendo verso l’inguine.

Rumore di bistecca di manzo affettata. Odore umido di carne fresca. La mia.

Sorride, percorrendo un tragitto a curve sulla pelle.

Lentamente. Pazientemente. Con costanza e dedizione.

Dovrei trovare le parole giuste per fermare questa cosa. Guadagnare tempo. Dare un senso a quello che sta succedendo. Invece non mi riesce di dire una sola sillaba.

– Sta tutto nel trovare il ritmo giusto – la voce stona con l’aspetto. È una voce da cameriere.

Non piango. È già qualcosa. In compenso, mi annienta il non vedere quello che succede, il potermi affidare solo al tatto, al dolore e all’odore.

– Non ti è rimasto molto sangue.

Sono un neonato che ha terrore della notte. Un animale braccato da cacciatori improvvisati.

– Lascialo – da un angolo salta fuori il bambino lupo. Non immaginavo sapesse parlare.

I tre si guardano.

Una zampa che strazia le foglie in terra. La luce che inizia a filtrare tra gli alberi. E il latrare di una donna in lontananza, di godimento o violenza, difficile decifrarlo.

Gli uomini si fermano. Da quaggiù vedo le caviglie immobili. Un nano in mezzo a tre orsi, armati di pugnale.

Sono stanco.

– Andiamocene, non ne vale la pena.

– Avete paura della donna?  Non è qui e lui da solo non conta un cazzo.

Il bambino non parla. È una statua inginocchiata per terra.

Nera. Sporca. Umida.

– Noi ce ne andiamo – risponde l’ultimo dei tre.

– Fate quel cazzo che volete, vigliacchi di merda.

Chiudo gli occhi un attimo, per farli riposare.

Lui invece non molla. Lo intuisco dalla forza che ci mette nel riprendere il lavoro, tra poco i muscoli si staccheranno dall’osso e non rimarrà molto delle mie gambe.

Aspetto di perdere ancora i sensi e di risvegliarmi con qualche parte del corpo accanto a me, staccata ovviamente, quando un frastuono improvviso entra, come una lama, nel mio cervello.

Ancora non guardo.

Un urlo di guerra. Qualcuno o qualcosa che cade pesantemente. Un rumore sordo. Rami che si spezzano.

Alzo le palpebre e vedo un corpo che si rotola per terra, con appiccicata una macchia scura. Sbraccia, sgomita, geme, ma la scimmia sul collo non si stacca.

Capelli. Occhi dalle pupille nere. Denti bianchi. Sangue inchiostro. Bocca urlante aperta.

Il bambino è una belva. Ha tra le labbra un boccone di pelle e capelli. Sputa cuoio cappelluto di fianco alle mie orecchie, solo dopo aver succhiato la polpa impregnata. Con la lingua si pulisce le labbra e le dita, assaporando ogni goccia di sangue. Dell’uomo, solo un’ombra in fuga.

Poi si avvicina.

I suoi gomiti e gli avambracci a terra, testa in mezzo, capelli che creano una macchia scura attorno. Si mette in verticale, a specchio rispetto al mio viso, e mi guarda negli occhi.

Il naso è a dieci centimetri dal mio. I lineamenti sono da bimbo di sette o otto anni. Ha quasi un’espressione infantile, se non fosse per ciò che ho appena visto.

Puzza di saliva e sangue.

– Lei dice che tu hai il potere di salvarci da noi stessi – le sue parole sono lente e solide come la pietra, mentre escono da labbra ancora insanguinate.

– Lei chi?

– Nostra madre.

– Chiunque sia, si sbaglia – mi affretto a rispondere – non sono nella condizione di salvare nessuno.

– Lei non si sbaglia mai.

Con una capriola all’indietro torna in piedi, poi si accuccia di nuovo e a quattro zampe scompare nel buio. Io con lui. La mia è un’oscurità immobile, che viene da dentro.

 

Continuo a svenire. Ho perso la cognizione del tempo, del ritmo del giorno. Un attimo prima la notte, ora il sole.

Azzurro. Accecante. Fastidioso.

Osservo sopra la mia testa e trovo la terra. Sporca e macchiata di sangue. Qualcosa non torna, qualcosa manca. Cielo sopra i piedi e terra sotto la testa. Il mondo si è capovolto ed io sono rimasto in piedi, o il contrario. Il sangue dai polpacci scorre come un piccolo ruscello fino al mento. Io sono sempre appeso al palo, le mani legate e una gran voglia di svegliarmi da qualche altra parte.

– Pensavamo fossi morto.

Ancora lui, il capo. Ha in mano qualcosa, ma non riesco a capire di cosa si tratti, il bagliore del sole non me lo permette.

– I miei hanno lavorato su di te per un bel po’.

Si abbassa e mi mostra dei capelli. I miei. E dire che non li tagliavo da quattro anni.

– Che significa?

– Nulla. Nel campo non ci sono risposte o motivazioni. Facciamo ciò che vogliamo e quando lo vogliamo.

– Eppure non mi avete ancora ucciso.

Mi adatto alla luce, ma non abbastanza da intuire la sua espressione. Si allontana senza rispondere.

Trascorro la giornata a sudare, sanguinare e dare di stomaco. Vomitare bile in questa posizione non lo consiglio. L’acido giallo appiccicoso, con striature verdastre, che arriva direttamente dallo stomaco, si riversa fuori, scende dalle labbra, entra nelle narici e ti soffoca. Poi fuoriesce dalla bocca. Un monaco tibetano ci troverebbe un significato simbolico: la circolarità della vita e della morte. A me non frega nulla, sputo e continuo a respirare.

Non mangio da un tempo indefinito e non bevo da quando il bambino lupo non mi ha gettato acqua infangata in faccia. Ma è rimasto ancora qualcosa che il mio corpo riesce a rigettare.

Nessuno si è fatto vivo o si è divertito su di me durante tutto il giorno. Deve essere girata voce che ho trovato un nuovo amico, con il vezzo del cannibalismo.

Fino a qualche giorno fa, le mie preoccupazioni erano come spiegare a mia figlia di sei anni che staremo sempre insieme, anche dopo la morte, ora mi sto incazzando perché non riesco a ricordare quanto tempo un uomo possa sopravvivere senza mangiare. Oppure in questa posizione.

Mi spiace piccola, non sono sicuro di poter mantenere la promessa.

– Odori di sangue – come un folletto a quattro zampe si avvicina silenzioso.

– Grazie. Per ieri, intendo.

– Avevo fame – fa un ghigno.

– Be’, grazie comunque.

Un attimo dopo sparisce dietro di me. Percepisco un peso in più, su quel che rimane delle mie gambe. Uno strappo. Cado. Batto testa e collo con violenza, le mani legate al petto non mi aiutano ad attutire il colpo.

Sono un verme inerte su un letto fatto di foglie, schifo e sangue indurito. Finisco sul risultato di ore e ore di fluidi corporei. I miei. Mi tira per i piedi come una preda appena catturata.

– Come ti chiami?

Non risponde. Mi lega a una corda. Facendolo mi gira a faccia in giù, forse per lui parlo troppo. Entriamo nel buio della boscaglia. Sto tenendo i muscoli rigidi, perché mi sta trascinando prono e non voglio rovinarmi la faccia.

Quando lo sforzo diventa insopportabile, appoggio la guancia sul terreno impervio, come fosse un guanciale. Il mio cuscino non è duro come pensavo, ma ho la sensazione che potrei perdere parte della mandibola, senza rendermene conto. La madre terra sa essere tanto accogliente quanto severa, all’occorrenza. In sostanza non gliene fotte molto.

Terra. Sangue. Linfa. Sto nutrendola e questo mi regala un sadico piacere. Come quando scarnifichiamo la pellicina vicino alle unghie: sadico dolore proprio al confine con il piacere.

Perdo i sensi. Sogno di essere ancora nel mondo che conoscevo. Faccio l’amore con una donna. Ha capelli corti e castani, la chiamo Elodie. Inizia a muoversi, eccitarsi, e di colpo il cielo si fa scuro e la notte ci raggiunge. Vorrei entrare delicatamente in lei, amarla come mi sono abituato a fare da quando si è ammalata, con dolcezza. Poi mi ritrovo a terra e tutto cambia. È violenta. La pelle si riempie di cicatrici, i capelli si allungano e diventano scuri. Odore di liquidi corporei e humus. Ed io che subisco la più terrificante scopata della mia vita.

Perché di questo si tratta, non di amore e neppure di sesso, di qualcosa che si trova oltre a entrambi.

 

 

V.

Fitta al fianco. Luci di candele. Superficie soffice sotto la schiena. Il mio uccello che pulsa.

Non abbiamo alcun potere sui sogni.

Le mani sono libere e la prima cosa che faccio al risveglio è grattarmi la testa. Quel che resta dei miei capelli non supera le tre dita di lunghezza.

– Pidocchi – è il bambino lupo a parlare.

– Che schif…

– Dagli un po’ d’acqua – una voce diversa.

Si avvicina a quattro zampe e getta tra le mie mani una borraccia. Bevo con calma, non ho più voglia di vomitare. Le gambe sono fasciate e pulsano, ma almeno sono attaccate al corpo.

– Dove mi trovo?

– Tra amici – ancora non lo metto a fuoco.

Cerco di alzarmi. Cedo ancor prima che il mio cervello mentalizzi il movimento.

Gli occhi, poco a poco, si abituano alla penombra. Il luogo dove mi trovo è ampio una cinquantina di metri quadrati. Un solo stanzone delimitato da pareti di tenda. Un braciere che sputa scintille verso un buco sul soffitto e una fila di brandine vuote. Io coricato sulla prima. Un catino con acqua e sangue di fianco, sopra un comodino improvvisato. Il pavimento, il soffitto, persino l’aria che mi circonda sa di verde. Sono nudo, se non per un paio di mutande grigie, che chissà per quale motivo immagino in dotazione all’esercito. Parte del dorso è fasciata.

Non sento freddo.

Ha tutte le caratteristiche di una tenda militare ed io mi sento un reduce di guerra.

– Chi sei? Fatti vedere!

– Sono il Maggiore.

In molti attorno a me. Una decina o più. Vanno dai tre ai tredici, quattordici anni, o giù di lì. Chi ha parlato è il più vecchio. Ha i capelli rossi, lunghi e raccolti a formare una treccia.

Le troppe domande muoiono in un silenzio che viene da dentro.

– Mangia – indica una ciotola, colma di una poltiglia verde.

– Grazie.

– Lei ti vuole parlare.

Il sapore non è male. Minestrone di verdure, poco salato ma con una punta di piccante.

– Da dove vieni? – è una bambina alta poco più di un metro a parlare.

– Intendi negli ultimi giorni o da quale parte del mondo?

Incertezza nei suoi occhi.

– Da Marsiglia – rispondo – abitavo in un piccolo appartamento, con ogni tipo di comodità – parlo più a me stesso.

– Cos’è un appartamento?

– Dico, stai scherzando.

– Smettila Lue, lascialo stare. Non devi risponderle, se non ti va.

– Non preoccuparti, mi piacciono le bambine curiose.

– Sei qui per aiutarci?

– Non so aiutare neppure me stesso, figurati una mandria di mocciosi.

Il bambino lupo è nascosto in un angolo. Si avvicina, mi toglie la ciotola vuota, mi annusa vicino al collo, poi si allontana.

– Non ci sono adulti?

– Nostra madre non ha mai portato nessuno qui – è ancora il Maggiore a parlare, il tono non è amichevole – sei il primo.

Poi lei entra.

E si fa silenzio.

I capelli sono neri e scendono oltre le spalle. Voluminosi. Spettinati. Il viso è una tempesta a ogni passo. Labbra carnose e occhi scuri. Un demone dell’inferno che non supera i trent’anni. I bambini la guardano estasiati.

Nessun dubbio. È colei che mi ha scopato durante la mia prima notte in quest’assurdo mondo.

La tunica scura arriva fino alle caviglie. Si apre davanti, lasciando intravvedere pantaloni mimetici aderenti, rotti all’altezza delle ginocchia.

Si siede a terra, con le gambe incrociate.

– Cosa vuoi da me? – parlare senza singhiozzare è la cosa più difficile che debba fare, da quando sono stato rapito. Nella fortunata ipotesi che si tratti di rapimento.

Sorride. Denti candidi come il latte.

– Cosa vuoi ancora? – ripeto – rispondi per favore.

– Non iniziare a piangere come un bambino – la sua voce sa di legno.

– Vaffanculo.

– Bel modo di ringraziare.

– Forse sei stata tu a consegnarmi a loro.

– Bene. Inizi a smettere di frignare e a usare la testa.

– Dove sono?

– A casa mia. Sei un ospite.

– E tu chi sei?

– Il mio nome è Aleksandra, ma mi chiamano la Veggente.

– Perché sono qui?

– Ho mandato uno dei miei a salvarti.

– Intendo il vero motivo per il quale sono stato rapito.

– Io mi sono limitata a volerti qui.

– E non solo…

Fa un cenno e il Maggiore si avvicina con una tazza fumante.

– Bevi adesso. E riposati, ci sarà tempo.

Vorrei altre risposte, ma dopo il sapore amaro del the sulla lingua riesco solo a scorgere il sorriso di quella donna. In quel momento il mondo accanto a me scompare.

– Sveglia – la bambina, che hanno chiamato Lue, mi sta solleticando il collo con una bambola fatta di legno e foglie.

– Sei sveglio?

– Credo di sì, adesso smettila.

Provo ad alzarmi, ma ancora niente.

– Sei svenuto e ti abbiamo lasciato dormire.

– In stato d’incoscienza, intendi. Mi avete drogato?

– Stai coricato adesso, le gambe sono ridotte male e se s’infettano, sono guai. Non è facile trovare antibiotici.

– E tu che ne sai di queste cose? Avrai sette anni.

– Sette e mezzo. E sono la tua infermiera.

Andiamo di bene in meglio.

– Lue, questo è il tuo nome, se non ricordo male. La bambina curiosa.

– Non sono curiosa, sono attenta. Almeno questo dice nostra madre.

– Piacere, Davide. O David, a questo punto poco m’importa.

Indossa capelli castani chiari e lineamenti nordici. Naso sottile, labbra sottili, fessure degli occhi sottili. Mi sorride come fossi il suo nuovo animaletto domestico.

È magra da far paura, ma non sembra denutrita, solo di costituzione esile. Pettinata così, con i capelli raccolti, ricorda una ballerina classica, se non fosse per i movimenti da scaricatore di porto.

– E così sarai tu a occuparti di me? In quale università hai studiato?

– Sono piccola, ma capisco quando mi prendono in giro.

Solo in quell’istante, a quelle parole, mi accorgo che per la prima volta da giorni non sono a testa in giù ma coricato comodamente, al caldo e con una piccola infermiera che mi accudisce.

– Scusami, Lue. Ho passato brutti momenti.

– Lo so. Gli uomini del Villaggio sono cattivi. Io ero con loro – abbassa lo sguardo – prima che nostra madre mi portasse via.

– Ti ha rapito?

– Mi ha salvato.

– Tu da dove vieni?

– Sono sempre stata nel Villaggio. Le persone si occupavano di me, a modo loro.

Dal suo sguardo immagino come.

– Sai che anch’io ho una bambina?

– Come si chiama?

– Iris. Ha quasi la tua età.

– E adesso dov’è? – mi sta sostituendo la fasciatura alle gambe. È un’ottima infermiera. Fa parlare il paziente per distrarlo.

– Spero con mio padre. Insomma, suo nonno.

– Io non ho mai avuto un padre e neppure un nonno.

La gamba è ridotta male. Ed è bastato il ricordo di Iris per ridurre male quel che resta di me.

– Tutti hanno un padre.

– Io no – risponde in modo risoluto – ma ho tanti fratelli e sorelle. E una mamma.

Stringe con forza il legaccio della fasciatura.

Fastidio. Dolore. Testa in un frullatore.

– Hai detto che arrivi da Marsiglia. Hai mai visto una nave? Di quelle con le vele?

– C’è un vicolo che costeggia Vieux Port dal quale si vedono sia le navi che il mare sconfinato. È il porto più vecchio della città.

– E di tutta la Francia – m’interrompe.

– Sì. È vero. È una delle prime cose che ho scoperto dopo che mi sono trasferito dall’Italia.

– Lo so. Mi piace studiare.

– Qui?

– Aleksandra ci insegna com’è di fuori. Dice sempre che non dobbiamo dimenticarlo, perché un giorno potrebbe servirci. Io so tutto della Francia e anche qualcosa dell’Italia. Roma soprattutto, la Cappella Sistina e il Colosseo, e anche il Foro.

È una chiacchierona e questo è un male.

– Dove sei nata?

– Nel mondo. Ci ha spiegato che noi siamo nati in tutte le parti del mondo, ma che ci siamo ritrovati nel Villaggio. Eravamo molto piccoli e pochi di noi ricordano la vita di prima.

– Perché lei vi ha preso?

– Te l’ho detto. Per salvarci. Ma non può salvare tutti. Molti se li portano via gli uomini grigi.

– Adesso basta – il Maggiore è entrato all’improvviso – non sappiamo se possiamo rispondere alle sue domande.

– Lui ci aiuterà, non ricordi?

– Per ora siamo noi ad aiutare lui.

Occhi azzurri. Fierezza. Sfida.

– È quasi notte. Lei vuole che non ti alzi fino a domani. Perciò basta domande e dormi.

– Immagino che tutti ubbidiate sempre ai suoi ordini.

– Non puoi capire. Siamo una famiglia e ci aiutiamo. Non c’è bisogno di dare ordini. Per te invece è diverso – tira fuori dalla tasca laterale un pugnale e con l’altra, con maestria, mi porge la solita tazza fumante – non sei dei nostri.

– Adesso bevi – finisce.

Ed io bevo, ma questa volta non prima di mettermi comodo. So che l’oblio mi raggiungerà in un battito di ciglia.

 

 


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