"La Pescatrice di Voci" di Daniela Vanillo (parte seconda)


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Siamo nel gennaio del 1999.

Colma di rabbia per quello che era successo nell’asilo precedente, iniziai a vagare per la città con l’elenco delle “Pagine Bianche” in macchina e gli indirizzi di tutte le scuole materne presenti nella zona, evidenziate in giallo. Non potevo certamente permettermi di telefonare, non sarebbe bastato. Dovevo andare di persona con la bimba. Lei è in macchina con me, seduta nel sedile posteriore. La guardo dallo specchietto retrovisore dell’auto e mi perdo con un sorriso nei suoi occhi azzurri.

Mi assalgono sempre gli stessi pensieri: “Come sarebbe stata la mia vita se…”. Ho un groppo nella gola e mi devo fermare. Mi dico: “Cosa faccio?” È sempre la stessa sequenza di pensieri ricorrenti. Ma poi mi riprendo. Di solito è così. Ricordo una persona molto cara che mi ha sempre detto che: “Per saltare più di un metro devi fare un passo indietro” ed io i passi indietro li ho sempre fatti. A volte impossibili, ma mi hanno dato lo slancio per saltare quel metro in più che corrisponde alla soluzione della quale ho bisogno in quel momento. Questa prova l’ho fatta realmente e sono riuscita a saltare più di un metro indietreggiando di un passo, non sono riuscita a farlo in altro modo. Fate la prova!

Per saltare più di un metro devi fare un passo indietro!

In questo asilo mi faranno molte domande, quelle solite di circostanza: “Come mai ha ritirato la bambina a gennaio? E come mai da uno degli asili più in vista della città? Di quel calibro e così ben nominato?” Ma la mente, mente e ti propone il risultato delle tue paure e non la realtà che non è ancora accaduta. Allontano i pensieri guardando dal finestrino della macchina, mentre mi asciugo gli occhi con le mani. Ora mi trovo in una via dove ricordavo esserci una scuola materna. Passando per anni nell’andare a casa avevo sempre notato tantissime auto parcheggiate sul marciapiede ed in doppia fila che, in certi orari della giornata, creavano problemi al traffico. In passato mi avevano raccontato che c’era una scuola privata frequentata da bambini che seguivano un metodo “adattivo”.

Mi avevano raccontato che era una scuola piuttosto strana poiché tutto era a dimensione di bambino. Applicavano un insegnamento adattivo e differenziato, basato sull’osservazione del bambino. Ai tempi in cui avevo sentito parlare di questa scuola, ero poco più di una ragazza, lavoravo in uno studio commerciale in prossimità dello stesso viale. Ogni mattina passando notavo le auto parcheggiate in modo irregolare, precario e disordinato, con le quattro frecce che lampeggiavano frettolosamente, in perfetta sintonia con il suono dello sbattere delle portiere e dello scalpitio dei passi frenetici dei genitori. Una specie di guerriglia mattutina, un fragile equilibrio fra la pazienza dei condomini del palazzo situato vicino alla scuola ed i genitori dei bambini. Quando la pazienza terminava, arrivava il corpo della polizia locale. Assorta dai miei pensieri, scesi dall’auto parcheggiata così, come avevo visto fare per anni e presi Maria in braccio.

 

PARTE SECONDA LA VOCE È PRECIPITATA

Presi Maria in braccio. Entrai in un bar e chiesi informazioni: “La scuola è infilata in una viuzza laterale a fondo chiuso,” disse la barista. Non ha l’aspetto di una gran scuola. È un edificio datato e maltenuto dei primi anni cinquanta. Mi riferiscono anche che è una scuola con iscrizioni a numero chiuso e che quasi sicuramente avrei trovato una lista d’attesa molto lunga.

La signora del bar è ben informata dato che le sue clienti sono mamme dei bambini che frequentano la scuola. Mi avvio pensando al coraggio dell’inventore del metodo adattivo e forse stavo andando nella direzione giusta. Io e Maria eravamo giunte davanti al cancellino giallo e scrostato dal tempo. Mi abbasso e le chiedo se questa scuola le piace, lei la guarda e risponde con un filo di voce: “Bella!”, poi una pausa e ancora: “Rovinata”. Il rumore del cancellino che scricchiola ci accompagna. Giunte in segreteria ci accolgono molto bene. Chiedo se c’è posto per una nuova iscrizione e la segretaria, che sembrava uscita dagli uffici di una fabbrica degli anni trenta, risponde che si è appena liberato un posto. Una famiglia è tornata al paese di origine. Maria si ferma subito per una prova ed io corro a casa a predisporre i documenti per l’iscrizione.

Ci aspetta una nuova avventura.

L’ho iscritta e non fanno molte domande, la mente mentiva, nessuna domanda. Spiego tutto il trascorso e che per ora la situazione è questa. La bambina non parla ed è sempre più chiusa sussurra a volte e risponde quando può o quando vuole ma con un filo di voce. Non si separa mai dal suo lenzuolino giallo piegato dentro il pancino del suo inseparabile amico: Il suo pupazzo procione chiamato “sophia”.

Dopo circa due mesi dall’iscrizione Maria, uscendo dall’asilo, mi consegna un piccolo foglietto sciupato scritto a matita che recita: “Maria oggi ha chiesto un bicchiere d’acqua”. Da lontano l’insegnante mi saluta facendomi un cenno con la mano e congedandosi da me con lo sguardo, si allontana sorridendomi. Questo è stato uno dei giorni più belli della mia vita e per Maria l’inizio della risalita verso la luce.

Maria prosegue le scuole elementari sempre nella stessa scuola, ed è ora di intraprendere la prima classe. Non è stata diagnosticata e spero non c’è ne sia più bisogno. Penso e mi convinco che in fondo non ha nulla e che presto si aprirà. È solo un po’ chiusa ed io ho letto troppo. Per ora mi fido della comprensione della struttura e del metodo applicato ma è solo la speranza di una madre. Se hai una bambina così non te la cavi facilmente e così fu. Verso il secondo quadrimestre la comprensione per la situazione e la pazienza erano già esaurite

Cercavo e non trovavo brancolando nel buio. Le voci quelle degli altri dei cani sciolti, i giudizi, gli sguardi, i pregiudizi. Ricordo il rumore dello scoppio dei palloncini colorati delle feste di compleanno che la facevano urlare e scappare. Per lei esplosioni nel cervello.

Tutti quei consigli inutili e pesanti infettati dal giudizio e dal pregiudizio. Il confronto di bambini senza confronto inconfrontabili per natura, per diversità, per pietà. Ricordi di sguardi di commiserazione, sensazioni di isolamento. Ma poi un giorno. Che miracolo certi incontri! Anch’io ho iniziato a cercare, e siamo nel 1999.

Cercando in internet la frase “centri per l’autismo”, con un click trovo un centro importante in Belgio. Al telefono spiego il mio problema: “Che sto chiamando dall’Italia, che sono stanca, che non so dove sbattere la testa e che sono disposta a partire per il Belgio con la bambina, per cercare di capire il suo problema.” Dall’altra parte mi risponde un medico belga molto gentile, che parla poco l’italiano ma che ce la mette proprio tutta per farsi capire e per aiutarmi. Mi spiega che non è necessario che io parta per il Belgio, perlomeno non per ora, poiché lui stesso sta partendo per l’Italia. La settimana successiva prenderà servizio presso un istituto scientifico situato nell’Italia del nord. Negli anni mi ero rivolta a diversi psicoterapeuti, ma nessuno, aveva mai nominato, questo centro diagnostico che sembrava apparire dalle nebbie di Avalon nella foresta di “Re Artù”; in effetti in questi anni la nebbia, le leggende il buio ed i briganti non sono mancati!

Chiamata dal corpo insegnanti per fare il punto della situazione, mi riferiscono che prima, avevano assecondato il problemi della bambina poiché frequentava la scuola materna. Purtroppo con l’inizio delle scuole elementari non potevano più gestire il problema: “Questa bambina ha qualcosa che non va, per lo più è assente, isolata ed interagisce molto poco, sta imparando a scrivere ma non segue le righe del quaderno e non ti guarda quando la chiami; inoltre non riesce ad imparare le tabelline anche le più semplici”. Per Maria la matematica è un altro rompicapo.

Un giorno, provando vari metodi per insegnarle le tabelline ho notato che nel ripetere ricordava il colore dei numeri. Avevo esaurito il colore di un pennarello e quindi ne avevo usato uno di colore rosa, per scrivere la tabellina del nove. Ho notato che ricordava il numero e la sequenza dei numeri della tabellina per via del colore abbinato, ed a quel punto ho realizzato uno schema al computer con le tabelline in sequenza. I colori li ho fatti scegliere a lei.

Così ho realizzato un braccialetto in tessuto di spugna come quello utilizzato dai tennisti. Ho cucito sulla stoffa un foglietto preventivamente plastificato con lo schema delle tabelline, facendo attenzione ai colori indicati da Maria. Lei per circa due mesi, lo ha tenuto al polso per andare a scuola poi non ne ha avuto più bisogno. Aiutata dalla memoria fotografica e con il bracciale al polso, le ha imparate a memoria tutte!

Pensiamo inoltre, che esistono bambini autistici che mentre giocano al computer, risolvono radici quadrate complesse continuando contemporaneamente a giocare la propria partita. Inoltre una parte di questi ragazzi, se non ha un ritiro sociale marcato, non desta l’attenzione degli insegnanti e quindi, non rappresenta un problema né per sé né per gli altri. Gli altri, quelli con problemi simili a Maria, vengono subito notati e segnalati. La scuola voleva che trovassi uno specialista che attraverso sedute mirate di psicoterapia la sbloccasse. Le insistenze e le pressioni scolastiche sarebbero state soddisfatte solo con il certificato di uno specialista di una struttura pubblica.

Verso la seconda elementare le pressioni da parte degli insegnanti e della direzione si fanno più insistenti ed allora contatto la neuropsichiatria infantile di riferimento dove mi rispondono inaspettatamente che la bambina è troppo grande. Interviene la scuola con il mio permesso e riesco ad avere un appuntamento impossibile ma dopo mesi… per incontrare il medico supponente ed impreparato già citato in questa storia quello dei quaranta milioni e del suo amico psicoterapeuta privato. Infatti l’ospedale non prevedeva sedute di psicoterapia a carico del servizio sanitario.

Nessun Aiuto! Solo la compagnia dello specialista incompetente e supponente che non sapeva che pesce pigliare se non una nuova specie chiamata “portafoglio”.

Miriadi di domande alle quali ho risposto ripetutamente e monotonamente. Consiglio di partire da casa con l’anamnesi familiare della propria famiglia e della propria vita. Se te la cavi a disegnare porta anche un bell’albero genealogico familiare con la descrizione delle varie malattie tue, sue e dei tuoi avi, così risparmi energia e tempo. È un metodo per non abbattersi nel ripercorrere i propri disagi all’infinito. In quel momento non sapevo come liberarmi dello specialista ma barando, gli diedi l’impressione che avrei contattato, il collega.

Invece feci più di quaranta passi ed una corsa per non farmi più vedere. Rimaneva il problema della scuola che voleva il certificato ed allora la telefonata in Belgio ed il mio arrivo al centro diagnostico.

 

 


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