“Lo zio Gaspare” di Marco Speciale


La vita del pensionato può avere i suoi vantaggi. A metà mattina, quando Milano si getta a capofitto in un coacervo di  mille attività, mi posso accomodare in locali semivuoti. Il cameriere del bar-torrefazione fa servizio ai tavoli con la consueta cortesia: il solito, dottore. Sollevo la tazzina dal piattino ma un’esitazione frena il mio movimento,  un dubbio mi blocca l’avambraccio. Dai vapori aromatici sale un bisbiglio: Michele Randazzo, non bere il tuo caffè. La crema, l’innocua e ricca crema che lo impreziosisce, quello schiumoso velo che ammalia l’avventore, forse cela un subdolo tranello. Devo essere cauto, non devo fidarmi.

Questa irrazionale prudenza mi paralizza, è un tempo sospeso, non so agire. Ricorda il tentennamento che mi coglie davanti a un bivio: l’incertezza su quale strada imboccare porta all’inazione. Resto così, con l’espresso a mezz’aria.

Sono passati tanti e tanti anni ma è innegabile: gli avvenimenti che ti  segnano da bambino non si possono cancellare.

Ho fatto capolino nel mondo sul finire degli anni Quaranta, quando Palermo sembrava risollevarsi dalle miserie della guerra. Mia madre, che mi aveva dato alla luce in una casa piccola e modesta, era per tutti Donna Rosa. Quel Donna, oltre che un generico titolo reverenziale, aveva un  che di deferente, un ossequio alla  solarità che irradiava la sua figura, il seno esuberante sbilanciato in avanti a sfidare il mondo e quel sorriso aperto che regalava a tutti i conoscenti incrociati sul cammino. Era inconfondibile il suo piglio quando si infilava nelle botteghe e la vivacità con cui parlava di questo e di quello. Eppure, quando passavamo vicino a quella palazzina, una villetta liberty a due piani, ridondante di orpelli architettonici e sbalzi floreali in ferro battuto, lei sembrava incupirsi. Evitavamo di passarle davanti cambiando sempre lato della via, quasi che un’oscura malattia si sprigionasse dalla facciata e minacciasse i pedoni. Le prime volte non ci feci caso, poi presi a domandarmi perché, in piena estate, si dovesse andare senza motivo sul marciapiede opposto completamente al sole, lasciando la ritemprante ombra. Di fronte alla mia richiesta di spiegazione su quei misteriosi attraversamenti della strada, lei, sempre così vitale ed estroversa, sembrava rabbuiarsi, si stringeva nelle spalle e affrettava il passo, la voce scivolava verso toni sussurrati. La risposta era ossessivamente sempre uguale: te lo spiegherò quando sarai più grande.

Così la mia infanzia trascorse come quella di tanti: il morbillo, le domeniche a giocare con i cuginetti, la maestra, i voti, la prima comunione. A quell’epoca i bambini non  ponevano troppe domande agli adulti, i genitori non erano gli amici dei propri figli. Io non osavo insistere ma quel turbamento non mi abbandonava, mi sentivo in balia di quella sottile inquietudine: la casa con i ghirigori, quella che si doveva evitare, quale segreto nascondeva? Mio padre tornava sempre stanco dal lavoro, ombroso e irritabile come tutti i papà, e farlo partecipe della mia strampalata storia degli attraversamenti mi sembrava davvero fuori luogo.

Non c’era scampo: dovevo tenermi quel dubbio. Se il buon Dio mi avesse coadiuvato nella crescita, forse avrei saputo. Ma  il tempo passava e le risposte di mia madre diventavano sempre più stizzite, come se la mia curiosità, tipica dell’età, finisse per indispettirla.

Allora, come spesso capitava, quando volevi sapere qualcosa di sconveniente, qualcosa di cui non era opportuno parlare in casa, qualcosa di peccaminoso, ti rivolgevi a un amico più grande. Vito mi aveva già dato un paio di dritte sulle femmine, che non ce l’avevano come noi, anzi, la minchia era sparita dentro a una fessurina. Così, preso il coraggio a due mani,  affrontai con lui l’argomento della palazzina misteriosa.

Si mise a ridere. Ero l’unico che non lo sapeva.

È la casa di quello che è morto col caffè –

I mesi che seguirono quella rivelazione furono il primo assaggio di cosa significasse diventare grandi. C’erano pensieri e pensieri, pure quelli tristi che non ti fanno dormire la notte. Scoprii di avere uno zio Gaspare, che di cognome faceva Pisciotta, come mia madre. Un mafioso, fatto fuori col veleno.

Donna Rosa era un tipo sveglio e quando passammo vicino alla palazzina incriminata senza  che io le chiedessi più niente, non ebbe il minimo dubbio.

Chi te lo ha detto? –

Col tempo appresi particolari della vita di quello strano zio di cui  non si era mai parlato, forse perché ci aveva pensato lui a parlare troppo. Aveva raccontato del suo capo, Salvatore Giuliano, e della strage di Portella delle Ginestre. Poi, altre improvvide dichiarazioni: banditi, mafiosi, carabinieri, eravamo la stessa cosa.  E quello sbandierare nomi di politici: Scelba, tanto per citare il più famoso. Lo zio Gaspare, con quei sorsi fatali di caffè alla stricnina, se ne era andato nella sua cella nel 1954.

Da allora presi a coltivare una certa diffidenza per il macinato marrone. In fondo, quel rito da espletare con la napoletana, quella giravolta che faceva mia nonna con la caffettiera era un oscuro cerimoniale. Il barbaro gorgoglio, che provocava la moka, invece, aveva un che di stregonico e inquietante. La mamma cominciò a sporcarmi il latte con qualche goccia di caffè. Mi inventai che lo sentivo amaro e le chiesi di evitare: meglio essere prudenti, meglio il latte nudo e crudo.

Quella colatura nera, che tutti tracannavano in allegria, non mi convinceva. Lo zio Gaspare, fratello di mia madre, un mio parente stretto, c’era morto per un caffè. Sì, forse in carcere lo facevano cattivo, ma eravamo davvero sicuri che nell’infida tazzina non si annidasse un pericolo?

Crescendo, non persi una certa sospettosa attenzione nei confronti di quella bevanda. Quando la mamma mi dettava la lista della spesa non tutti gli alimenti erano uguali, e quando mi diceva  due etti di caffè non era come dire due etti di zucchero o di formaggio: c’era qualcosa di taciuto  indissolubilmente legato a quei chicchi marroni.

Quando ci trasferimmo a Milano per acchiappare un po’ di quel miracolo economico di cui si cominciava a vociferare, tutta la storia sembrò perdere importanza. Se qualche volta si tornava sull’argomento, mia madre concedeva rivelazioni col contagocce. Raccontava che suo fratello aveva in carcere un uccellino a cui dava briciole del suo pasto, prima di assaggiarlo lui stesso: un modo per scongiurare l’avvelenamento. Non che gli fosse servito a molto.

Pian piano, certi episodi della vita lentamente sbiadiscono e le immagini nitide scolpite nella memoria tendono a scolorire, si appannano, qualche volta si confondono con quelle di altri eventi. Così la vicenda dello zio Gaspare e di quel caffè, che tanto aveva appassionato la cronaca, finì idealmente in quelle scatole di latta dove accumuliamo le cianfrusaglie del nostro passato.

Ma c’era quella casa e, che mi piacesse o meno, anch’io ne ero erede. Il parentado tutto decise compatto: visto che nel frattempo ero diventato architetto, dovevo occuparmi della vendita di quella proprietà, dopo anni di oblio e di abbandono. Toccava a me. La diaspora del lavoro aveva portato cugini in Francia, Belgio, Germania. C’era chi era rimasto sul suolo italico ma, forse per inveterata tradizione familiare, aveva voluto ripercorrere la carriera di zio Gaspare e ora guardava il sole a scacchi.

Il problema era che quella bella palazzina un po’ cadente, bisognosa di un’attenta ristrutturazione ma ancora piena di fascino, non sembrava interessare. Mai nessuno avrebbe voluto abitare nella casa di Pisciotta. Pesava il silente monito delle cosche: chi parla troppo finisce  per infamare persino i muri in cui ha vissuto. La troppa loquacità fa gettare sale sulle rovine di Cartagine.

Affidai con poche speranze la vendita a un amico di amici che stava avviando una delle prime agenzie immobiliari della Sicilia. Ogni mese provavo a telefonare ma la risposta era sempre la stessa: non ci sono compratori.  Le mie chiamate presero pian piano a diradarsi, finché non mi feci più vivo.

Fu con grande sorpresa che, all’inizio del 1986, fui contattato da Palermo. C’era un possibile acquirente, interessato a investire nella casa. Voleva parlare direttamente col venditore, certi affari si possono sbrogliare meglio guardandosi negli occhi. Così dovetti tornare sull’isola: forse era l’ultimo atto di una vicenda che mi inchiodava, mio malgrado, alla terra d’origine, a zio Gaspare e a quel caffè corretto col veleno.

Quando giunsi a Palermo non la riconobbi: erano passati quasi trent’anni. La palazzina non era così diversa da come me la ricordavo, l’intorno invece sì, era molto cambiato. Al quartiere Brancaccio, la palazzina liberty, che tanto aveva segnato la mia infanzia,  sembrava sul punto di essere fagocitata da alti palazzi che la circondavano. Pareva un agnello gettato nell’arena coi leoni, le tapparelle biancastre dei fabbricati inquietavano come denti pronti ad azzannare. Erano i frutti di una sconsiderata speculazione edilizia che aveva stravolto la città. Ma lei era ancora lì, orgoglioso baluardo di bellezza. La ricchezza dei decori stonava con l’intorno, un prezioso vestito da sera riposto fra abiti dozzinali.

Gli uffici dell’agenzia non erano lontani dai Quattro Canti. Il titolare  presentò il mio interlocutore – TaninoDi Maggio, piacere – e, con procedura piuttosto inusuale, uscì dalla stanza riservata all’incontro, lasciandoci soli.

L’uomo che mi stava di fronte aveva l’aria di un vecchio venditore porta a porta, lo sguardo vivace in cerca di complicità. Il suo spezzato conservava  un vago odore di naftalina: un blazer blu con i revers molto grandi dalle punte  aerodinamiche, i calzoni grigi di vigogna con la piega consunta per le troppe stirature. Ai piedi un paio di mocassini non troppo lucidi, non troppo nuovi, piuttosto sformati.

Sapeva molte cose sulla casa dei Pisciotta. Era perfettamente a conoscenza dell’oscura maledizione che l’aveva colpita dopo la morte del proprietario. Mi impressionò il fatto che sorridesse sempre, quasi che le due pieghe che gli si aprivano ai lati della bocca, mostrando l’incerta dentatura, fossero due solchi  induriti su quella maschera di terracotta. L’uomo imbastì un ragionamento con la manifesta speranza che lo seguissi, e che ne condividessi poi le logiche conclusioni.

Secondo lui, la palazzina era solo un fastidio per i proprietari, un inutile costo: tasse, solo tasse. A rimetterci le mani sarebbe stato un investimento enorme, col rischio che qualcuno non gradisse. Non tutti avevano dimenticato, e la gente che parla troppo non raccoglie molti consensi fra i Siciliani.

Sa cosa mi diceva mio padre? ‘A megghiu  parola è chidda ca ‘un si disci

La miglior parola è quella che non si dice. Non stavo gradendo troppo lo strano colloquio. Quel lungo preambolo mi stava lentamente riportando alla  mia infanzia e ai misteri di quegli attraversamenti. Le pareti dell’ufficio sembravano muoversi e restringere l’ambiente, l’aria che lo riempiva pareva essersi rarefatta. Forse non ero abituato a certe ambigue atmosfere.

Finalmente, come Dio volle, si giunse al punto più atteso di ogni trattativa immobiliare: quanto. La ricchezza della premessa, ne ero certo, sarebbe stata inversamente proporzionale all’offerta, che immaginavo risicata e deludente. Lui, però, me la soffiò addosso come un’offesa: 50.000 lire. La super, all’epoca, costava 1300 al litro. La cifra rappresentava, a malapena, l’equivalente di un pieno di benzina.

Dunque, era per questo che ero giunto a Palermo: per una misera mancia. Ricordo  distintamente che avvampai, la discussione stava assumendo  toni grotteschi e sgradevoli: la proposta d’acquisto era un’autentica provocazione. Quell’uomo, dal look assai incerto, non sembrava provare alcuna vergogna per quell’offerta che sapeva di elemosina, ripetuta a più riprese con una convinzione sconcertante.

Potevo evitare un sacco di fastidi: Tanino Di Maggio sosteneva di essere il mio benefattore.

L’incontro si concluse bruscamente. Il mio ritorno in Sicilia era stato solo motivo di irritazione. Avrei riferito ai miei parenti di quella strampalata proposta d’acquisto, certo di ricevere il più deciso dei rifiuti.

E invece i giorni successivi furono pieni di sorprese. Contattai uno a uno gli eredi, attendendomi la più logica delle risposte. Accadde qualcosa che non avevo messo in conto. Tutti, indiscriminatamente, ridevano di quelle 50.000 lire e commentavano, chi con male parole, chi ipotizzando un’evidente demenza dell’uomo. Non appena sentivano il nome del compratore, però, tutto cambiava, le opinioni espresse solo un attimo prima divenivano semplici boutade. Qualcuno balbettava, qualcuno fingeva di soffiarsi il naso per prendere tempo, qualcuno aveva un impegno improvviso e doveva richiamarmi. Ma tutti furono poi concordi nel dire che l’offerta, non generosa, andava accettata. Io dovetti allinearmi. Con un fax, comunicai che Tanino Di Maggio sarebbe stato il nuovo proprietario della palazzina liberty.

Ripensai a mia madre e a come mi facesse evitare quella casa. Finalmente capii che ci sono paure che non si possono esprimere a parole ma che si respirano, incombono sulle nostre esistenze, ci seguono come un’ombra, non ci lasciano mai: qualcosa di non manifesto, di oscuro che precipita nel nostro quotidiano. O nella nostra tazzina.

Tempo un paio di mesi, come per alimentare il fuoco delle mie inquietudini, un famoso banchiere si ritrovò a sorbire uno strano caffè nel carcere di Voghera. Un tipo originale Michele Sindona. Aveva come amici capi di Stato e finanzieri di tutto il mondo e sceglieva di accompagnarsi coi Gambino, o con gente tipo Stefano Bontade. Se n’era andato come lo zio Gaspare: la correzione gli era stata fatale.

Insomma, tutti questi accadimenti mi hanno portato fino a qui, a questo tavolo del bar-torrefazione, con l’espresso fermo a mezz’aria. Osservo al bancone gli avventori e un po’ invidio quella nonchalance con cui accostano la tazzina alle labbra, senza un ripensamento, con fiducia, con serenità. Per me, Michele Randazzo, nipote di Gaspare Pisciotta, non potrà mai essere così.

Continuo a pensare che tutti quegli uomini, che sorseggiano il caffè con disinvoltura, sappiano troppo poco del mondo. E, se devo dirla tutta, sono proprio degli incauti.


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