Il filo di fumo nero contro il cielo azzurro non è un evento casuale ma un invito, una cosa del tipo: “abbiamo acceso un falò per movimentare la festa, vienici a trovare.”
Da quel braccio di statale che da Casalino porta a Novara, l’oscura speranza richiama gli zombie al pascolo verso San Gaudenzio, ma attira anche l’attenzione di Renato.
Si è accorto della novità del giorno quando è uscito da cascina Rosella, il suo rifugio. La costruzione è un incidente tra una caserma e una azienda agricola, edificata nel mezzo delle risaie e assediata per quasi tutto l’anno da sciami di zanzare.
Intrappolato nella pace di un mondo morto, fa rimbalzare lo sguardo tra l’invito al party e la schiena dei cadaveri con il vizio del trekking.
Il gregge dei passeggiatori si dirige verso la città.
Dopo i giorni del contagio non ha mai incontrato corpi vivi ma solo trapassati incapaci di rimanere nelle fosse, però non si è arreso al pensiero di essere l’unico sopravvissuto nel raggio di chilometri.
Stringe il volante mentre nelle vene gli scorre un cocktail di adrenalina ed eccitazione. Sfreccia sull’asfalto in modalità Carmageddon per mettere sotto la maggior quantità di morti viventi. Negli anni la popolazione di ritornati è drasticamente diminuita. Gli esemplari più vecchi rimasti in circolazione sono stati congelati e tostati dalle varie intemperie. Si sono assottigliati ma non rassegnati. Non puzzano come le peggiori discariche di Caracas, hanno più l’aspetto di scheletri straccioni.
Renato è concentrato. Per non distrarsi nella guida, ascolta la sottile filigrana di rumore bianco trasmessa dagli altoparlanti della Fiat Punto.
Ci sono abbastanza diversamente vivi in cammino, ma sono disposti a random e la maggior parte ha scelto di percorrere la via tra l’erba intossicata dei campi.
Osserva la cenere che dalla terra arriva al cielo. Sceglie il tragitto più largo nell’anello delle tangenziali per penetrare attraverso il punto più sottile tra la periferia e il centro. Arrivato all’altezza del centro commerciale San Martino, vede un’imponente colata di cemento armato, affondata nel mezzo di una conca. Dopo essere stato depredato, devastato e distrutto dall’isteria di massa, il bestione ha perso la maschera; ogni vetrina sfondata vomita l’oscurità del deserto infiocchettato e lustrato.
Curioso come un enorme esercizio commerciale – dove la generosità non è di casa – sia stato battezzato con il nome di un santo che ha diviso il proprio mantello con un povero.
Renato schiaccia a fondo l’acceleratore, scende dal cavalcavia, prende velocità per aprirsi un varco tra l’orda in via Costa.
Sfoltito il muro dei non abbastanza morti, si rende conto che la presenza degli infetti cala inesorabilmente. Un buon segno, la sua corsa ha raggiunto la testa delle larve in processione.
Via XX Settembre non nasconde sorprese, nemmeno sotto i portici. Largo Costituente è una curva, scorre veloce. Si lascia le poste centrali alle spalle. Arrivato, si ferma in Piazza della Libertà. Gli zombi sono molti, ma non troppi e si possono affrontare senza spiacevoli danni collaterali.
Davanti al Teatro Coccia spicca una pira abbrustolita con tanto di meridiana nera e cadavere carbonizzato. L’arrivo di Renato attira l’attenzione, in mezzo ai non morti c’è una ragazza che distribuisce colpi con la spranga a tutti i presenti.
Non vuole rischiare di investire quella farfalla impazzita, così afferra la pala, apre la portiera. Viene investito dall’odore di barbecue, dalle narici ai polmoni il tragitto è breve, infatti la risposta è immediata; un prepotente conato di vomito lo fa traballare. Scuote la testa, cerca di riprendersi, respira con la bocca, inizia il lavoro di muscoli per rimuovere lo strato di carne morta che lo separa dalla misteriosa sopravvissuta.
Lei sembra non vederlo, troppo presa a sfogare la rabbia. Indossa un paio di blue jeans, degli anfibi viola in puro stile Dr. Martens, una felpa nera ed è ricoperta da altrui materiale organico ben oltre la naturale data di scadenza.
Renato avanza ma un brivido attraversa il suo cervelletto, qualcosa non va. I masticatori la ignorano e proseguono imperterriti verso i resti della grigliata.
Se non la attaccano è perché è già spacciata pensa, riprendendo fiato.
L’intuizione è una scossa elettrica che gli brucia i neuroni. Il viaggio di sola andata verso l’illuminazione termina quando un urlo umano gli si insinua nei timpani.
La ragazza gli corre incontro saltando e aggirando ogni ostacolo presente.
“Aspetta, – urla sollevando la mano sinistra – posso aiutarti.” Mente senza ritegno, ma spera di riuscire a farla ragionare.
La tattica si rivela fallimentare. Il primo appuntamento non è andato bene.
Riemerge dalle tenebre. Il risveglio non è dei più piacevoli, il più potente dei mal di testa nella storia ha messo su casa nelle sue ossa craniche e quando la luce si schianta sulle pupille il dolore si moltiplica.
Renato vorrebbe allungare una mano, stropicciarsi la faccia ma i polsi sono stretti da una robusta corda, la gola è prigioniera di un giro di canapa, i piedi ancorati alla testata in ferro. Nell’inutile tentativo di liberarsi, riesce solo a dimenarsi sul letto.
Il resto della stanza è un concentrato di sporco, vuoto e cattiveria. A terra, sopra un evidente strato di polvere, c’è la spranga in compagnia di abiti sporchi e una sedia di legno.
Dalla finestra vede uno scorcio di tetti, ma non riconosce la zona.
Prima di capire cosa gli stia succedendo, si ritrova a mollo nel sudore; i battiti cardiaci hanno una cadenza superiore alla frequenza consentita a uomo. L’idea di morire perché il suo cuore esplode lo solleva, l’alternativa di essere inerte nelle mani di una pazza scatenata non è di suo gradimento.
Cerca di evadere usando la sola forza delle braccia. Non se ne rende conto, ma per lo sforzo ruggisce.
Niente, chi si è occupato dei nodi sapeva il fatto suo.
Alle sue spalle si apre una porta.
“Cerca di stare zitto, altrimenti arriveranno tutti qui.” La voce di lei è grave, ha lo stesso suono di una lima sfregata sulla grattugia.
“Liberami subito”. Renato gioca la carta del carattere, mostrarsi decisi può aiutare in situazioni del genere.
“Seee, poi vuoi due uova sbattute?”
Non è messa bene. Gli occhi marroni sono spenti, malati. La pelle è bianca, lucida per il sudore e tende a marcire. Un reticolo di vene blu traccia la mappa della sua furia. Indossa una t-shirt nera stampata e i pantaloni verdi di una tuta da ginnastica.
“Hai notato l’ironia?” Solleva il dito per indicare la frase rossa Beware of Biters appena sopra la faccia di un morto vivente.
“Liberami subito.”
Renato è un disco rotto, ripete la stessa frase un centinaio di volte e le varie intonazioni attraversano tutta la gamma delle emozioni disponibili.
La ragazza si rialza a fatica, si muove al rallenty e ansima più del necessario. Estrae un fazzoletto dalla tasca e glielo infila in bocca. “A me, non servirà più” dice. Nel tentativo di ridere, inizia a tossire.
Tra lei e uno zombie c’è solo qualche minuto.
“Ciao, sono Desy, quello bruciato, era il mio compagno.” Si perde nei pensieri e sposta lo sguardo oltre la finestra. “Non era stato infettato, così l’ho arrostito.” Raccoglie i pensieri, ritorna a fissarlo. “Sai, non voglio morire, ma se proprio deve accadere, con me deve morire tutto.”
Lui prova a parlarle, ma ogni suono è filtrato dal cotone parcheggiato nella sua bocca e i mugolii emessi non bastano per replicare.
“Dopo, quando ci rivedremo, potrei avere fame e tu sarai il mio primo pasto.” Si lascia cadere sulla sedia e assume le sembianze di una bambola spezzata.
Il petto smette di muoversi, i lunghi capelli neri le coprono il viso e sulle braccia spicca il morso.
Il take away umano tenta di liberarsi, ma i legacci resistono.
Almeno morirà esausto.
Il silenzio ha occupato la stanza, Renato piange ogni singola lacrima aspettando la fine.
Il corpo di lei ha uno spasmo, poi sussurra le sue ultime parole: “sto tornando.”