Nella sottile isteria tra gli uomini, le donne e i bambini al cospetto del mare, Maurizio riconobbe il residuo di una sacralità affievolita, ma mai estinta.
Era un bisogno atavico, una tensione intima che vibrava in tutti. Esso non riusciva più a trasformarsi in rituale, ma ne esistevano ancora dei riflessi inconsci; Maurizio ne era convinto.
Bagnarsi, il desiderio d’intimità con la Thalassa, la fame acustica dell’ipnotico suono della risacca. Una traccia sottile, semisommersa dal chiasso e dalla volgarità contemporanea.
Per quel motivo, complesso ed elementare, Maurizio nutriva la periodica necessità del contatto col mare. Pure lui, nonostante il disprezzo un po’ snob, del quale provava segreta vergogna, verso la massa spiaggiata e vociante. La maggior parte delle volte, quel contatto l’otteneva attraverso la vacanza con la famiglia; parentesi snervante, vorticante di insoddisfazioni, alterchi, ricerca del riposo, rinnovo dell’unione coniugale, capricci; dove la perdita di un tubetto di crema protettiva scatenava liti tra la figliolanza, con esplosioni d’urla e spargimenti di lacrime, dove il piegarsi della moglie in spiaggia, le curve disegnate del costume da bagno, gli accendeva un rinnovato, erotico desiderio, messo a sopire dalla vita, e il discorso qualunquista, captato nella discussione del vicino d’ombrellone, lo convinceva sempre di più delle sue ritrovate simpatie neobolsceviche.
Eppure, anche nell’insopportabile, sentiva l’influenza del mare sugli uomini, un ondeggiare nei comportamenti, nelle dinamiche, negli sbalzi d’umore. Lo svuotarsi della mente cullati dalla risacca, resettati dallo sciabordio, sciolti nell’annullarsi che tendeva all’elemento primigenio in una tensione istintiva, come la bocca di un neonato che cercava il capezzolo materno.
Quel giorno, Roberto lo raggiunse; lasciarono le rispettive famiglie tra le linee degli ombrelloni brulicanti di varia umanità della spiaggia ligure che, secondo la loro insopprimibile piemontesità, era IL mare e scapparono ancora più a Ponente, a inseguire una cupa e tumescente massa nuvolosa che, nel suo sontuoso avanzare, copriva i raggi del sole di fine agosto.
Verso Sanremo, il cielo s’era fatto perfino violaceo, il vento s’era rafforzato e i cavalloni ingrossati arricciavano candide cime schiumose, infrangendosi con fragore sugli scogli.
«Ferma, ferma qua» disse Maurizio.
«Qua?»
Lui annuì senza aggiungere altro, indicò l’orizzonte pesante e il mare impetuoso che schiaffeggiava, sotto, la caletta pietrosa.
Scesero col minimo necessario: i teli, una borsa e la compagnia reciproca. Secondo il Meteo, il mare andava da ‘mosso’ a ‘molto mosso’ e tutte le spiagge con servizio di assistenza bagnanti avevano issato bandiere rosse in sequenza, come in un tardivo e stanco Primo Maggio balneare.
«Guarda che roba» mormorò Roberto, fermandosi al cospetto della mareggiata.
Impetuosi, i cavalloni montavano all’orizzonte sussultante, innalzavano un contrafforte d’acqua livida di almeno tre metri, per poi abbattersi sul fondo sassoso. Nella risacca, il pietrisco si muoveva in avanti e indietro, ruzzolava, trascinato dal risucchio dell’acqua e produceva un suono che ricordava il battere di miriadi di nacchere.
Il vento era impertinente, tiepido come l’alito di un gigante; i capelli arruffati di Roberto garrivano all’aria furiosa. L’energia che si avvertiva era eccitante. Maurizio mosse un paio di passi verso la riva, si voltò verso l’amico e sorrise. «Nettuno è incazzato, oggi».
Bisognava essere senza cognizione a voler fare il bagno lì, in una giornata come quella e proprio la demenza dell’idea rendeva a Roberto la visione attraente e la sottintesa proposta di Maurizio un gesto irresistibile, pazzo e, quindi, necessario.
«Follia» Sorrise. Tutti e due avevano detto una cosa convinti di fare l’esatto contrario. L’ironia della contraddizione cui avevano alluso l’un l’altro strappò loro una risata stridula.
«Mica andiamo al largo» si giustificò Maurizio.
«E chi ci arriverebbe?»
Ridevano ancora al vento, gli spruzzi salati si nebulizzavano sui loro visi confondendosi con il sospetto di pioggia che gravava sulla riviera.
Rinnovavano, proprio in quel frangente, il vecchio legame, l’amicizia come sentimento adolescenziale, forte e scellerato; assoluto, profondo anche nella sua demenza.
Avanzarono nell’acqua così: il fondo ghiaioso solleticava e punzecchiava le piante dei piedi, le pietrine più minute vorticavano attorno alle caviglie; l’acqua fredda, ma piacevole.
«Fanculo Nettuno» mormorò Roberto, stringendo gli occhi verso l’orizzonte.
Maurizio si riempì d’aria con un lungo, mugulante respiro e scattò in avanti affrontando le onde e urlando: un verso indistinto fagocitato dal rombo del Mediterraneo. Roberto lo imitò.
Si schiantarono contro l’onda in un abbraccio scriteriato, l’acqua li travolse, sommersi e spinti in basso e indietro sul bagnasciuga dove si rigirarono confusi, fuori dal mondo, privi d’orientamento, direzione o senso.
Maurizio rise al cielo pesante, ma il frastuono onnipresente coprì il suo divertimento. Roberto lo interpretò leggendo la smorfia disegnata sulla bocca dell’amico, nei suoi occhi strizzati, nella sua posa scomposta, le membra libere.
Maurizio si mise carponi, fili d’acqua salata gli ruscellavano dal collo, dalle spalle; il mare gli scivolava addosso percorrendo le braccia rigide piantate sul fondo, le mani distese. Roberto, poco distante, stava seduto con le gambe allargate nella posa che l’istinto ergonomico gli aveva suggerito per drenare dal costume le pietrine fini che vi si erano insinuate.
«Ho il prepuzio che è diventato una gerla piena di ghiaia» disse.
Dalla riva osservavano adesso il distendersi e l’ampliarsi delle onde lungo la caletta. Le nuvole s’agitavano in un denso attorcigliarsi di budella spumose e cangianti, passando in rassegna tutte le sfumature del grigio fino a una consistenza color melanzana proprio laggiù, sulla linea irrequieta dell’orizzonte.
Le pietre sbatacchiate senza posa continuavano la loro percussione.
«Ancora» disse Maurizio. Si alzò , malfermo per la disabitudine dei suoi piedi morbidi alla superficie scabra.
«Fanculo Nettuno!» ripeté, guardando Roberto con lo stesso gusto di un ragazzino che aveva scoperto il turpiloquio.
Maurizio appariva innaturalmente bianco, eburneo, stagliato contro la metallescenza del mare e avanzava con le braccia di nuovo spalancate in posa cristica, un pagano al cospetto del suo idolo, pronto a una comunione che, distante millenni dal simbolico e cristiano cannibalismo, imponeva una fusione più definitiva con l’ineffabile e la trascendenza che passava attraverso la natura, anziché superarla.
Maurizio avanzava con passi forzati e sciabordanti, avanzava convinto, verso un’onda in crescita potente.
L’onda lo sollevò con indifferenza sopra la cresta lattea e, con altrettanta indifferenza, lo fece cadere, arricciandosi su di lui, avvolgendolo e sbattendolo giù.
Roberto lo seguì e spiccò un balzo contro il cavallone impattando in un abbandono cieco alla massa montante.
Il fronte l’avvolse, fragoroso; Roberto rimbalzò con energia inaspettata. Sparito il cielo, scomparsa l’aria, le orecchie sature d’acqua percepivano rumori diversi, alieni e gorgoglianti, gutturali, fino a rovinarsi sul fondale.
Un tonfo inatteso, duro.
La risacca risucchiava tutti e due ora, verso il largo. Voltolavano con abbandono cadaverico, liberi; braccia e gambe inermi sbatacchiate dalle correnti, la volontà spenta, ceduta al volere degli eventi, al caso indifferente.
Il tempo era sospeso, cadenzato solo dal ritmo gravitazionale del moto ondoso che si baloccava coi loro corpi: un pendolo liquido, un respiro diaframmatico scandito dalla contrazione del riflusso marino. Si sentivano entrambi semplici elementi conglobati in quel movimento perenne. Erano ininfluenti, sgravati di peso, di pensieri, della coscienza. Liberi di una libertà primitiva ed elementare, preesistente all’uomo.
Il tumulto del pelago s’intensificò e i due uomini ne seguirono il sussulto tempestoso. Il mare sembrava aver rafforzato la sua furia, l’acqua sempre più scura, i flutti avevano aumentato i sobbalzi e ogni scroscio avvolgeva tutto e tutti e due, succubi, seguivano, inanimati, la dinamica, abbattendosi ogni volta sul pietrisco, ogni volta sgomenti della violenza dell’impatto, ma anestetizzati dall’eccitazione e dal reverenziale timore che lo scatenarsi degli elementi incuteva.
L’ennesimo maroso erto fino alle nubi li aveva gettati lontano, all’interno dell’insenatura, ruzzolandoli come turaccioli oltre la riva, graffiati, abrasi, arrossati dalle percosse. Il bagno salmastro aveva sterilizzato i segni e tutti e due, ignari e anestetizzati dall’euforia, grondanti, feriti, segnati, divennero consci che sarebbe dovuto finire tutto lì.
Risalirono in auto mentre la pioggia iniziava a picchiettare grosse gocce pesanti sul parabrezza. Tremavano, ansimavano muti, umidi, salati, la mente svuotata, la coscienza ancora ritrosa a ritornare nella dimensione del quotidiano. Un tuono rimbombò come un colpo di cannone. Roberto mise in moto e attivò il tergicristalli, la strada del ritorno alle famiglie era bagnata, lucida e all’apparenza linda.