A Catania i temporali sembrano venire giù con cattiveria. Un lamento dal cielo e poi una valanga d’acqua. Non avvertono, non ti preparano. Nessun cielo acciaio o una nuvola nera. Prima il sole e poi precipitano e basta.
Così come quando sotto la doccia, con la faccia insaponata, scende di colpo un’acqua gelida, primitiva, perché la luce è andata via e la caldaia si stacca. Un attimo e urli per il freddo. O come quando è mattino, sei di fretta e la macchina non parte e dici, cazzo ma fino a ieri sera funzionava! E invece no, non funziona. Uguale a quando il cane scappa, la tv va in fumo, un amico muore; non era malato, era giovane, eppure…
Ecco, capita che piova così.
Rientro a casa, a piedi, come non mi succede più da anni. Faccio due passi, mi dico. Non cammini mai, fallo adesso. E lo faccio.
Chi non è mai stato a Catania e non l’ha percorsa almeno una volta a piedi, non lo sa. Non lo sa che sull’asse dei viali la città cambia volto d’improvviso, come quando si scatena un temporale. Un solo lungo viale, che in un pezzetto si chiama in un modo e in quello dopo in un altro. Su corso Italia, per esempio, il mondo è tutto un lusso. Avvocati, borse in pelle, grandi discorsi, caffè d’oro. Faccio due metri e a piazza Roma la faccenda è tutt’altra. Studenti, donne che vanno di fretta, lavavetri, code d’auto, una bolgia. Al viale Rapisardi, poi, la cosa si ribalta di nuovo. Le facce che incroci sono graffiate dalla tristezza, si va lenti, ci si saluta a testa bassa. Mi volto; il corso Italia non è che un’illusione all’orizzonte.
Fischietto. In testa mi suona Almost Blue di Chet Baker. Non lo faccio da un po’, dico, di ritornare a casa a piedi e mentre lentamente muovo il passo, questa volta, mi rendo conto di non riconoscere più la strada. Eppure è la stessa di sempre. Chiudo gli occhi. Una leggera vertigine.
I have seen such an unhappy couple…
Sono sul corso Italia.
Penso sempre ai temporali e a come vengono giù in questa città.
A far compagnia a Chet, mentre strascica qualche morbido diesis con la sua tromba, mi appare in mente una donna. Ricordo la faccia, ma non il nome. Inizio a sovrapporre iniziali, voci, città. Mi si accavalla tutto. I dolori si moltiplicano e la memoria si dimezza. Ho la netta impressione che quella donna sia una ladra. Lo sento, ci credo. Ma come si chiamava?
Poco importa, mi dico.
Sono in piazza Roma. Quando guadagno un metro in più verso casa, scrutando giù, osservando la punta delle mie scarpe, mi pare di arrivare al portone con pezzi di me in meno. Li ho persi strada facendo? Mi sento più leggero, come se qualcuno m’avesse rapinato durante il tragitto. Mi giro, guardo a terra, mi volto indietro. Niente.
Almost me…
«È ingiusto che lei ti abbia lasciato, per l’ennesima volta, solo al mondo» mi urla Chet dentro al cranio.
«Solo, intendi… solo al mio rientro a casa?» gli domando.
«Solo, amico. Solo. Ha bevuto e poi è tornata a casa soddisfatta. E via in un letto di un altro, il bicchiere pieno, nuovi occhi di cui ubriacarsi. Ha fatto così. Fanno sempre così.»
«Fanno chi? Ma lei? Ricordi il suo nome?» gli dico.
E poi Chet riprende a suonare.
L’altro viale è vicino. Accelero il passo.
Almost you…
Mi volto ancora una volta.
Rifletto sulle bevute da ventenne, alle sbronze innocenti. Oggi una sbronza non passerebbe nemmeno pregando e l’indomani sarebbero dolori. Forti, fortissimi. Prima alla testa e poi allo stomaco. E quando succede, nuovi sensi di colpa si palesano alla porta vestiti da testimoni di Geova. Io non ho sensi di colpa.
«Lei, invece…» mi sussurra Chet.
Me l’aveva detto un amico, gli rispondo:
«Mettiti nella capoccia che siamo tutti sostituibili. E che questa non è una cosa triste. È così e basta. Prima ti amano promettendoti chissà che cosa e poi ti sublimano con altro. E quest’altro è più alto e più figo di te e ci sarà quando tu non ci sarai mai. Succede. E non ti avvertono. Puff! Via.»
«Puff, via?» gli faccio.
«Sì. Puff. Anzi, sgzum!»
«Sgzum?»
«Sgzum. Lo sai come fa un temporale in un fumetto?»
«No.»
«Fa: sgzum!»
«Che c’entrano ora i temporali?»
«C’entrano. C’entrano i temporali nostri, che si scatenano di punto in bianco e ci rimani fregato. Senza ombrello e con la testa zuppa.»
«Sgzum!» gli dico.
«Bravo.»
Ritorno a casa a piedi, come non mi capitava da anni. Almost blue risuona forte sotto alle prime luci del tramonto. E lasciando cadere i pezzi dietro di me, mi sembra davvero di ritornare solitario, come sempre, leggero, dopo aver consumato una spalla poggiato sul muro portante di un bar di corso Italia, dopo tanti sigari fumati, le mani gelide affondate nelle tasche del cappotto e la faccia di lei che mi fissa.
«Solo, amico. Solo» mi ripete Chet.
Adesso sono a casa, sotto al portone. Il viale Rapisardi è una barca rotta in mezzo all’oceano. Il suo nome non lo ricordo. Rientro, non si sa mai che piova.
Almost blue.