“La ragazza che suonava l’arpa“ di Simone Togneri


Luce azzurra sul fondo, piccoli occhi di bue ad illuminare la scena. Quattro file di musicisti disposti in ordine su gradinate semicircolari. Legni al centro, archi ai lati, ottoni dietro. In alto a destra, a dominare l’orchestra, la massa scura delle percussioni e a sinistra la sagoma leggera e sinuosa dell’arpa. E, contro lo sfondo blu cobalto, lei: l’arpista. Attende in piedi l’arrivo del direttore. L’abito di seta color panna carezza il suo corpo e contro le luci traspare senza eccessi.
Entra il maestro. Il pubblico applaude e lui si inchina. Poi si volta e fa sedere i musicisti. Dieci secondi di silenzio assoluto e l’arpista introduce il brano. Suona poche note, ma lì dentro c’è tutta la musica del mondo. Lei tiene gli occhi chiusi. È fusa con il suo strumento, da lontano sembrano la polena di una nave. Le braccia nude si muovono con grazia, le dita pizzicano le corde e il canto dell’arpa si diffonde nel teatro come se provenisse da tutte le direzioni. Sorvola la platea e risale infilandosi nei palchi, passando da uno all’altro come se volesse cucirli insieme. Volteggia in aria fino al lampadario di cristallo, poi rotola lungo le pareti decorate in oro e torna sul palcoscenico, che nel frattempo si è illuminato di luce chiara. Le cromature degli strumenti scintillano, come gli occhi di chi ascolta. Nessuno si muove. Solo la figura eterea dell’arpista, là in alto, sembra avere il permesso di farlo.
Il maestro fa un movimento e gli archi cominciano a muoversi insieme all’arpa, che adesso è vento. I violini e le viole sono fili d’erba, i violoncelli salici piangenti, i contrabbassi querce secolari. Poi entrano i flauti e gli ottavini, a piccoli passi come fossero formiche. I clarinetti sono acqua tra le rocce. C’è un crescendo d’intensità sonora, entrano i corni e lo spazio si allarga verso laghi, boschi e colline. Catene montuose dalle creste innevate fanno da fondale. Il fagotto annuncia le nuvole, i timpani sono tuoni che rompono l’aria. L’arpa adesso è pioggia. La musica sale in un crescendo di unisoni cadenzati e regolari, poi si ferma all’improvviso. Riflette per un istante o due, torna giù indecisa e apre tra le nuvole uno spazio blu pieno di attesa. È la voce nasale dell’oboe a parlare adesso, un serpente scuro che striscia, si allunga, si arrotola, si aggroviglia. È agile, scattante e riflessivo al tempo stesso. Tiene con il fiato sospeso. Diventa malinconico per un po’, poi guizza all’improvviso come se volesse mordere. Ci ripensa, torna indietro e si spegne tra le note dell’arpa, che ha ripreso a suonare il tema iniziale.
Guardo l’arpista, lassù sull’ultimo gradone del palco. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Le sue mani danzano sulle corde con sicurezza, il suo sguardo si alza dallo spartito e corre sulla platea, verso di me, poi si racchiude come se si vergognasse di ciò che ha visto. Mi sento nudo davanti ai suoi occhi. Sono sicuro che lei mi veda anche se sono immerso nel buio insieme ad altre centinaia di persone.
L’oboe si assopisce, entra un violoncello che trasporta la musica altrove, come se volesse traghettare lo spirito del brano verso l’orlo di un precipizio. E il controfagotto incalza scurendo le voci. Il temporale ha un ultimo guizzo di energia, poi muore nelle corde dell’arpa. Il controfagotto si perde lontano, il violoncello resiste ancora per due o tre movimenti e si placa. Il corno rosseggia lontano, verso l’orizzonte incendiato del tramonto. Il direttore si accartoccia, l’orchestra lo segue. Un ultima, leggerissima nota sembra durare un’eternità. E poi è notte. L’ultima dell’anno.
Quando le luci tornano a illuminare il palcoscenico, il teatro esplode in un applauso fragoroso. I musicisti si alzano, sorridono e si inchinano insieme ai loro strumenti. Lei si stacca dall’arpa quasi con dolore. Sistema il vestito, sorride appena, emozionata. Di nuovo ho la sensazione che mi guardi e sento un brivido correre lungo la schiena. Applaudo fino a farmi male alle mani, fino a che il sipario non si chiude per l’ultima volta.
Il pubblico comincia a lasciare la platea. Senza fretta. Gli spettatori si allontanano scambiandosi auguri di buon anno. Alla fine resto da solo sulla mia poltrona di velluto rosso. Fisso il tendaggio del sipario nel punto esatto dove pochi minuti prima c’era l’arpa. Mi alzo prima che sia il custode a chiedermi di farlo. Barcollo come se avessi bevuto troppo. Mi affretto all’uscita e qualcuno mi chiede se sto bene.
Fuori del teatro mi investe l’aria gelida. Tiro su il bavero della giacca e giro l’angolo. Mi fermo, torno indietro di un passo o due. Accanto a una porta chiusa, un cartello recita: INGRESSO ARTISTI. C’è gente, qualcuno ha un mazzo di fiori tra le mani. Mi fermo, rifletto e guardo l’ora. I musicisti non sono ancora usciti. L’idea di aspettarla quasi mi spaventa. Il pensiero di rivederla mi accende un fuoco nella pancia, ma l’idea di poterla avvicinare o addirittura parlarle mi stravolge. Comincio a fremere. Dovrei allontanarmi, nello stato in cui sono il rischio di incorrere in una gaffe è alto. Eppure resto. Anche perché mie gambe non si muovono. Mi accendo una sigaretta. Penso al momento in cui apparirà, a quando mi farò spazio tra la folla per avvicinarla. Penso a cosa le dirò e mi blocco: vorrei usare le parole con lei come lei ha usato la musica con me, ma non sono mai stato bravo a parlare. E così, di colpo, mi dico che sono uno stupido, che dovrei già essere a casa, che con lei non ho nessuna speranza. Eppure resto. All’improvviso ho la sensazione che lei non abbia nessuno ad aspettarla.
I musicisti cominciano a uscire e il brusio della piccola folla si impenna. Esce il direttore c’è un’ovazione. Escono tutti. Tranne lei. Mi faccio da parte perché mi accorgo di essere in mezzo. Tra abbracci, complimenti e mazzi di fiori, qualcuno parla di brindare al nuovo anno. Pochi minuti ancora e la folla si assottiglia, perde pezzi come una cometa troppo vicino al sole. Alla fine resto solo. Guardo l’ora: manca poco alla mezzanotte. Gli scoppi dei mortaretti riempiono l’aria. Fumo un’altra sigaretta e intanto mi domando se lei non sia stata solo il frutto della mia immaginazione.
Ma la risposta arriva quasi subito. Sento la porta che si apre e finalmente esce. Lei. Ha un cappotto color panna che le arriva ai piedi e sembra ancora più alta di quando era sul palcoscenico. Indossa un cappellino alla francese dello stesso colore del cappotto e gli occhi verdi le brillano come se fossero ancora sotto i riflettori. Si guarda intorno, vagamente delusa che nessuno l’abbia aspettata. A quel punto mi vede. Mi sorride. Prendo coraggio, butto il mozzicone ancora acceso e mi faccio avanti e allungo la mano.
– Complimenti – dico. È il meglio che so fare.
Lei mi guarda e stringe gli occhi come se non avesse capito. Ripeto ciò che ho detto e sorride di nuovo. Ci diamo la mano. Ha la stretta calda e leggera. Le sue dita sono morbide.
Il dialogo è già finito. Lei mi guarda e non dice nulla, come se si aspettasse qualcos’altro da me. Io sono bloccato. Non so cosa dire. Non mi intendo di musica, tanto meno di musica classica, e qualsiasi giudizio tecnico è fuori della mia portata. Mi sento piccolo, un piccolo uomo che cerca di assaltare da solo una città inespugnabile. Lei mi guarda, ma so che se non dico qualcosa perderà tutto l’interesse.
– È da sola?
Lei annuisce.
– È un peccato stare da soli l’ultima notte dell’anno – dico. Mi sembra la cosa più stupida che abbia mai detto in vita mia e sento il mio viso avvampare.
Lei sgrana gli occhi stupita dal mio azzardo.
– Voglio dire, – cerco di rimediare come posso, – che è un peccato non condividere le emozioni di un concerto come questo. Lei è bravissima.
Lei incrocia le mani sul petto e accenna un inchino: lusingata.
– Ha toccato tutte le mie corde.
Lei comincia a ridere e solo a quel punto capisco di aver fatto una battuta involontaria.
– Abbia pazienza, non volevo – mi scuso.
Lei punta l’indice contro il mio petto e fa una smorfia. Ci metto un po’ a capire che vuol conoscere il mio nome. Ci metto ancora di più a capire che non può parlare.
– Raffaele – rispondo. – E lei?
La ragazza pesca dalla borsa un biglietto da visita. Stampati sopra ci sono il disegno stilizzato di un arpa, un indirizzo email e un nome: Deianira.
– Deianira – leggo ad alta voce. – È un bellissimo nome.
Deianira arrossisce e abbassa lo sguardo.
– Abita qui a Firenze?
Cenno affermativo.
– Lontano?
Cenno negativo.
– Posso accompagnarla?
Lei si rabbuia, ma quando alzo le mani e mi dichiaro una brava persona si mette a ridere e fa cenno di sì con testa. Ma c’è qualcosa di nuovo nel suo modo di guardarmi. La sua bocca ride, non i suoi occhi. In fondo al suo sguardo brucia una fiamma che non ho mai visto prima. Ne avevo intuito la presenza già seduto in platea. Adesso, a pochi centimetri di distanza, ne riconosco tutto il potere attrattivo.
Camminiamo lungo via Ghibellina e svoltiamo in via Del Proconsolo. La cupola del Brunelleschi sovrasta noi e tutti gli altri palazzi. Sopra di lei si accendono i fiori incandescenti dei fuochi d’artificio. È mezzanotte.
– Buon anno – le dico. Lei non mi risponde.
Lungo via Dei Cerretani mi prende sotto braccio e accosta il suo corpo al mio. Deianira è pensierosa, tiene lo sguardo basso. Io riprendo a parlare. Le racconto le emozioni che ho vissuto durante il concerto. Lei non mi risponde.
– Tutto bene? – chiedo.
Di nuovo nessuna risposta. Ci fermiamo. Lei mi guarda e le ripeto la domanda. Lei alza i suoi occhi verdi nei miei. Ha un’aria interrogativa e capisco che non ha sentito ciò che ho detto. Un petardo esplode vicino e mi scuote. Lei non ha battuto ciglio. Parlo ancora e a quel punto noto il modo in cui mi osserva la bocca. Capisco in quel momento che non solo non ha il dono della parola, ma le manca anche l’udito. Sono esterrefatto, perché lei è una musicista. Come può una sordomuta suonare l’arpa così bene? Lei nota il mio smarrimento e mi sorride di nuovo. È come se mi avesse parlato, come se mi avesse chiesto di non aver fretta. So che saprò. E questo basta.

Deianira abita vicino la basilica di Santa Maria Novella, all’ultimo piano di un palazzo storico. Sul portone le stringo la mano di nuovo e la bacio sulle guance. Lei si irrigidisce, ma non mi allontana. Ha la pelle calda.
– Quando posso sentirla suonare ancora?
Il volto di Deianira si illumina. Lei prende la borsa degli spartiti e ci fruga dentro. Mi porge il calendario delle sue date con l’orchestra. Lo leggo e noto con rammarico che sono tutte esibizioni fuori regione e la prima in ordine cronologico è di lì a un mese di distanza. Glielo rendo. – Sono troppo lontane. Nel tempo e nello spazio.
Lei si rabbuia e fa un gesto di disprezzo nei confronti del calendario. Tradotto: posso anche tenermelo.
– Io vorrei ascoltarla subito. Non tra un mese – dichiaro.
Lei alza entrambe le sopracciglia e fa una smorfia: sul serio?
Annuisco.
Lei si morde un labbro e si guarda attorno per un po’. Punta l’indice in alto e si mette una mano aperta sul petto. E poi fa il gesto di suonare l’arpa.
Temo di aver compreso male ed esito prima di parlare. Lei ripete i gesti e a quel punto mi lancio. – Vuole suonare adesso per me?
Deianira annuisce.
– In casa sua? Vuole che io salga in casa sua?
Annuisce di nuovo.
– A quest’ora? Non disturbo?
Lei fa spallucce e fa cenno di no con il capo. Mi chiede di seguirla.
La casa di Deianira è enorme. Una mansarda dalle grandi vetrate attraverso le quali Firenze esplode con tutte le sue luci. I pavimenti sono di parquet, i soffitti a travi e mezzane dipinti di bianco. Alle pareti della sala sono appesi un gran numero di trofei, premi e fotografie che ritraggono Deianira insieme al suo strumento. E al centro della stanza, come un altare, una magnifica arpa dorata. È come entrare in un luogo sacro. Penso che potrei sporcarlo solo con il pensiero.
Deianira mi sfiora la giacca e indica il divano: devo mettermi comodo. Lei toglie il cappotto: sotto ha il vestito con cui si è esibita, che aderisce al suo corpo giocando con le forme. Fa il cenno di bere da una tazzina e mi indica. Caffè? Io annuisco. – Grazie. Senza zucchero.
Dopo qualche minuto torna con il caffè. Si stropiccia le mani, è nervosa. Le chiedo se va tutto bene e lei fa cenno di sì. Guarda l’arpa e alza le spalle, come a dire che è più forte di lei. Capisco che è lo strumento a metterle soggezione, probabilmente per lei è una nuova emozione ogni volta che pizzica le sue corde e stasera che ci sono io a sentirla, io da solo, l’emozione è moltiplicata.
Prende uno sgabello e si siede dietro all’arpa. Raccoglie i capelli in una ciocca, chiude gli occhi e respira profondamente, carezzando con le dita il legno decorato. Io poso la tazzina e la guardo, rapito. Ancora mi domando come possa suonare dal momento che non sente. Ma capisco che è una domanda sciocca e ricaccio indietro quel dubbio, che mi distrae. Capisco subito che lei non ascolta la musica attraverso le orecchie, lei lo fa con l’anima.
La prima nota è come una ferita che si apre sul suo volto. Deianira inarca la schiena all’indietro e comincia a sfiorare le corde dell’arpa con intensità crescente. Non riconosco la musica, ma di qualunque brano si tratti sono sicuro di non aver mai ascoltato niente di simile in vita mia. Al confronto, la sua esibizione al teatro Verdi di poche ore prima è stata solo il pasticciare di un dilettante.
Il movimento le fa sciogliere i capelli. Il vestito sale lasciando scoperte le gambe. La guardo abbracciata al suo strumento come se fosse il suo amante.
Avevo dieci anni, dice una voce nella mia testa. Non so da dove sia uscito quel pensiero, ma credo che sia stata la musica di Deianira ad averlo evocato.
Lei suona e non mi guarda. La voce suadente dell’arpa mi chiede di chiudere gli occhi e io obbedisco. Mi trascina in un giardino ricco di piante e di fiori, dove una bambina bionda vestita di bianco canta volteggiando su se stessa. Sento caldo. Immagino che sia estate piena. C’è gioia nel canto della bambina. Non la gioia dettata dagli anni spensierati dell’infanzia, ma dalla volontà di dare forma a un impulso creativo di cui è fin troppo consapevole. Volevo cantare, penso ancora, ero brava.
La musica si piega improvvisamente. L’armonia si fa dissonante, sgradevole. La melodia infila una serie di semitoni che non lascia scampo alla gaiezza dei movimenti precedenti. C’è turbamento, c’è gravosità, odio e rabbia insieme. Un’ombra si allunga sull’erba rigogliosa del giardino. C’è qualcuno, un uomo. La bambina si volta e sorride. Mi fidavo di lui. Guardo Deianira, sul viso ha dipinta una smorfia di dolore e le lacrime cominciano a scenderle lungo le guance. Mi fidavo. L’uomo, che intuisco non essere suo padre, le si accovaccia accanto e le carezza i capelli. Aveva le mani ruvide. Le carezza i capelli e la guarda. Aveva gli occhi cattivi. La guarda e le tocca il viso. La sua pelle aveva un odore di sporco. Le tocca il viso e scende giù a farle male. Mi faceva male da piangere. La bambina piange e chiama la mamma. E lei non veniva. L’uomo dice che la mamma non c’è, che è uscita per comprarle il regalo di compleanno. Era il giorno del mio compleanno. Anche lui aveva un regalo per lei, il più bel regalo del mondo. Non volevo il suo regalo, volevo solo cantare.
Deianira adesso grida, piange a dirotto e percuote le corde dell’arpa come se fosse un vibrafono. I suoni si sovrastano, l’armonia è spezzata da cambi repentini, la melodia è caos di note che risuonano le une dentro le altre.
L’uomo è ancora nel giardino, in piedi. La bambina non c’è più, al suo posto, distesa sul prato, c’è una bambola fatta di stracci. Inerme. Inanimata. Lui si allaccia i pantaloni e dice alla bambola di non raccontare a nessuno quel che è successo. Una bambola non può parlare. Una bambola non può sentire.
Una donna entra nella scena. Somiglia moltissimo a Deianira. Bacia l’uomo sulle labbra e gli chiede se la bambina è stata buona. Sarò buona, lo prometto. Lui risponde di sì e sorride. Non lo dirò a nessuno, mamma, a nessuno.
Deianira stacca le mani dalle corde e geme. Si lascia scivolare sul parquet e lì resta ad ansimare. Io non ho la forza di alzarmi e soccorrerla. Resto sprofondato nel divano a rivivere ciò che ho visto attraverso la musica. Sono sconvolto, ho paura. Fuori dalle grandi vetrate Firenze non si è accorta di niente.
Deianira si tira su a fatica e solo allora trovo le forze per andare ad aiutarla. È madida di sudore, il vestito adesso aderisce al suo corpo senza nascondere nulla. È
– È così che hai perso la voce e l’udito?
Lei guarda la mia bocca e annuisce.
– E non lo hai mai detto a nessuno?
Fa cenno di no.
– Perché lo hai detto a me?
Mi guarda negli occhi e mi accarezza il viso. Tira la mia testa verso di se e mi bacia le labbra. Me lo ha detto perché non poteva più tenere tutto dentro. Me lo ha detto perché io sarei stato in grado di “ascoltare”.
– Chi è lui?
Deianira non risponde.
– Dimmi chi è – insisto.
Lei posa l’indice sulla mia bocca: niente più domande. Unisce le mani e le appoggia a una guancia: è l’ora di dormire. Mi accompagna alla porta e, di nuovo, mi fa cenno con l’indice di stare zitto. Con le dita disegna spirali immaginarie nell’aria attorno alla sua testa.
– Non mi crederebbe nessuno, vero? – chiedo.
Deianira annuisce.
Esco in strada. Gli ultimi petardi scoppiano quasi di malavoglia. Ho cominciato l’anno nuovo con la sensazione di trovarmi nel posto sbagliato. Forse di essere nel tempo sbagliato. Temo che sia una sensazione che vivrò spesso d’ora in poi.
Accendo una sigaretta e guardo in alto: Deianira è appoggiata alla vetrata e mi saluta con un cenno della mano. Silenziosa come un fantasma. So che non la rivedrò mai più. So che lei vuole così. Rispondo al saluto e tendo le labbra in un sorriso che somiglia troppo a una ferita.
Non lo dirò a nessuno.


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