Mi sono sbagliato per la prima volta quando sono venuto al mondo, la seconda vorrei non avere il tempo di farlo. D’altronde, commettiamo tutti qualche errore imperdonabile prima o poi, è solo questione di tempo, l’unica angustia è nel non potervi porre rimedio. Io ho tutta la vita davanti, ma è come se l’avessi già finita prima ancora di iniziarla, annichilito dall’essere venuto al mondo. Non c’è infatti nessuna nobiltà nel non essere capaci di amare, non c’è onore che non sia quello di saperlo e crucciarsene quanto basta per non essere felici, e un uomo senza quell’onore non è un uomo. È l’unico dazio che posso pagare a chi mi porta amore, l’unica moneta di scambio, vano compromesso con i sentimenti che non fa bene a nessuno, in quanto nulla toglie, e nulla dà.
Serena ha pazienza, ne ha da vendere, anche oggi toglie tempo al suo lavoro per venirmi a trovare. Cucineremo insieme, mangeremo insieme, faremo l’amore e saremo infelici insieme, lasciando a ciascuno dei due, una volta di più, l’amaro in bocca al momento dei saluti.
Suona il telefono, è arrivata sotto casa. Vado ad aprirle, sul volto avverto i muscoli tendersi in un sorriso, sono spontanei e non sanno mentire; mi chiedo se anche questa manifestazione di contentezza sia un errore, sia ingannevole nei suoi confronti. Lascia infatti intendere che io sia felice di vederla, e ho l’illusione che sia davvero così, ma so che una sua occhiata mi convincerà del contrario, anche se non so il perché. Infatti la vedo, lei mi guarda, sorride a sua volta, fa finta di niente, ma si nota che avrebbe già qualcosa da dire. Non mi fa però appunti, mi getta le braccia al collo, anche lei crede che sia bello vederci. In realtà, ne siamo convinti entrambi, senza ombra di dubbio, tutte le volte che ci fissiamo un appuntamento. E allora, cosa non va?
Io non lo so, però se lei non se ne va felice da casa mia, per quanto si passi il tempo in armonia, vuol senz’altro dire che qualcosa non va.
Chiacchieriamo leggeri del più e del meno, mentre io metto a bollire l’acqua e lei pulisce due verdure. Poi mangiamo allegri, senza lasciar spazio a silenzi, che, almeno quelli, tra noi non ci sono mai; sciacquiamo i piatti e filiamo in camera mia a fare l’amore.
Non ha mai lo stesso sapore, non ha mai le stesse parole, non ha mai gli stessi gesti eppure anche le novità sembrano familiari. Ci abbracciamo, ci baciamo, ci abbandoniamo come non ci fosse un domani, poi ognuno si riveste e, nuovamente, arriva il momento di salutarsi. Non è mai uno solo dei due che decide quando è ora di separarsi, ma nemmeno lo decidiamo in fondo, perché è il tempo che lo decide per noi. Senza perché, senza parole, senza scuse che ci lascino modo di capire se ci vada o meno.
Poi, lo so, sarà di nuovo rimpianto di qualcosa quando lei, già guardandosi allo specchio nell’ascensore, non saprà se essere felice oppure no.
Io invece lo so, so che sarei felice se lo fosse anche lei, non capisco cosa ci voglia di più perché lo sia, quindi ritorno a deprimermi perché concludo che non sono capace di amare: forse c’è qualcuno che lo è? Forse ti insegnano a farlo, se davvero c’è un modo?
Ma non è tempo, non è neanche il modo di vivere il giorno che muore, l’adesso è già quasi domani, nel fermento delle angustie che la mattina seguente ci sarà presto altro di più tristemente prosaico a cui pensare. E rimarremo così, infelici pur amandoci, senza sapere il perché, un perché che sia almeno accettabile e che non incolpi nessuno dei due, perché se così fosse il capirlo sarebbe troppo deflagrante.
Torno allora al mio errore originale, all’incapacità di amare, allo sbaglio che fu venire al mondo, e mi chiedo se mai avrò la terribile sventura di fare in tempo a rimediare o, peggio, di scoprire di non aver sbagliato affatto.