“Solo su appuntamento” di Mirko Giacchetti


 

I

Non vivo l’esistenza che vorrei. L’omicidio è l’unica alternativa; non posso fare altro, non devo fare altro, non voglio fare altro.

Quattro pareti di vetro satinato mi dividono dal resto del mondo. Una sedia con telaio di polipropilene e rivestimento acrilico grigio mi costringe a rimane seduto. Un tavolo bianco in fornica. Uno schedario metallico raccoglie le poche cose che devo sapere. La moquette verde marcio attutisce qualsiasi rumore.

Qualcuno che non ha mai fatto il mio lavoro, ha deciso i tempi per: compilazione, formulazione e archiviazione. Il pc sotto il tavolo vomita dal monitor promesse di scenari impossibili. L’applicativo che uso calcola, ordina, elabora. Ogni anno il computer diventa più veloce, il programma più semplice. I tempi per ogni pratica si accorciano nel nome della Santa Efficienza.

Inserisco dati come una scimmia ammaestrata; devo dare in pasto al computer cifre, percentuali, indirizzi, numeri di previdenza e di conto.

Devo essere veloce.

Faccio sempre le stesse cose, dico sempre le stesse cose, spiego sempre le stesse cose.

Gli altri oltre la scrivania non lo sanno. Loro vogliono qualcuno che li ascolti. Ti devono spiegare cose che sai già, ti devono spiegare come inserire i dati, come calcolare, elaborare, archiviare. Loro vogliono farmi diventare più efficiente.

Loro sono un programma fornito di volontà.

Sono un fortunato a tempo indeterminato.

Il mio lavoro, il mio calcolatore, il mio monitor, la mia sedia grigia, la mia scrivania bianca, la mia moquette verde, il mio schedario metallico, il mio cubicolo con vetri satinati e i miei “loro”, hanno un nome: alienazione.

Il tempo è scaduto: è l’ora dell’omicidio.

Abbandono la tensione. Mi rilasso. Appoggio la schiena sulla sedia. Un respiro profondo. Sorrido.

Davanti a me c’è seduta una donna che impugna una fattura come una spada. Ascolto le sue chiacchiere; sembrano il rumore di una stampante, bla-bla-bla pausa, bla-bla-bla pausa, bla-bla-bla pausa.

Tace e mi fissa. Ha finito di stampare le sue parole nel vuoto.

Sorrido.

La Considero come se fosse una “cosa”. Lei è un contenitore biodegradabile pieno di nervi tesi, organi curati, capelli tinti, muscoli allenati, gambe depilate, occhi truccati, sorriso di circostanza e nemmeno un filo di grasso.

Vorrei prendere la cucitrice e pinzarle un labbro, infilzarle una penna nell’occhio, piantarle le puntine sulla fronte, ricoprirla di post-it gialli, farle ingoiare un evidenziatore azzurro, riempirle la bocca con le gomme blu, strangolarla con il filo del mouse crema, percuoterla con la tastiera nera, squartarla con un taglierino arancione, estrarle le interiora rosse, fotocopiarle in bianco e nero ma modalità fronte-retro.

“Mi scusi, ma perché non può inserire anche questa?” dice, porgendomi il pezzo di carta.

Con queste fantasie non terminerò la pratica nei tempi previsti, ma questo non è più un problema.

Dopo una rapida occhiata vedo un nome maschile nell’intestazione.

“Signora –rispondo- questa fattura è intestata a qualcuno che non è lei. Non può essere ricompresa nella sua pratica. Mi dispiace. Non posso fare altrimenti.”

Riprende la ricevuta e ricomincia a pensare.

La pelle del suo viso è idratata. L’abbronzatura tenta di nascondere le prime rughe. In alcune espressioni si vede la faccia che inizia a colarle lungo i lineamenti. Per nascondere l’invecchiamento va in palestra e rassoda glutei, fianchi e seno. Segue dieta ferree fatte di fame, rinunce e barrette energetiche. Questo regime è integrato con sigarette light. Il dito indice della mano destra ha un lieve alone giallo che risalta vicino allo smalto rosa confetto. Il suo alito sa di menta con un retrogusto di cenere. I denti sono bianchi ma opachi. Il trucco intorno agli occhi ne risalta il taglio e inganna sulla presenza delle borse.

Oltre l’apparenza è una bambola di pezza. Chiudo la pratica e guardo la sua data di nascita: quarantuno anni.

“Le spiego; questa fattura è intestata a mio marito, ma sono io che l’ho pagata. Io mi prendo la responsabilità e lei la inserisce!”

Non ho più voglia di rispiegare il motivo per cui la sua cazzo di fattura non può essere inserita nella sua cazzo di pratica.

Sorrido, apro il primo cassetto della scrivania. Prendo la pistola e gliela punto contro.

“Lei-non-può-includere-la-fattura-nella-pratica” dico, scandendo le parole.

La “cosa” che ho di fronte, nell’ordine: sbarra gli occhi, perde il colore dell’abbronzatura, piega verso il basso gli angoli della bocca e poi inizia a tremare.

“Non urli. Non si muova. Non parli e stia buona, altrimenti la rendo definitivamente immortale. Ha capito?”

Deglutisce, fissa la canna e rimane immobile.

“Come si chiama?” le chiedo.

“Vanessa” sussurra.

Lascio che si abitui all’idea di avere una riserva di piombo puntata contro. L’adrenalina deve aver rimesso in moto il sangue. La sua tinta da centro estetico è tornata. La sua pelle è giallo sporco, opaco e slavato come qualcosa che sa di malattia; come un cancro che la consuma dentro, una necrosi dei tessuti interni, una leucemia fulminante, un virus che le manda in cortocircuito tutte le cellule.

Qualcuno bussa alla porta. Controllo l’ora. L’appuntamento dovrebbe essere finito da cinque minuti. Guardo la sagoma sul vetro, sembra quella di un uomo.

“Non fiatare, altrimenti ti uccido” dico. Faccio sparire il ferro sotto la scrivania.

“Avanti.”

La porta si apre. Appare un ragazzo sulla trentina. Capelli corti e barba incolta. Accenna un sorriso in direzione di Vanessa, poi mi guarda e dice: “Mi scusi. Vorrei farle una domanda veloce.”

Sorrido. “Posso darle una risposta veloce?”.

L’ultimo arrivato si ferma. Pensa a quello che ho detto. Si riprende e ne approfitta per chiudere la porta alle sue spalle.

Appena si volta ricompare l’ammazza cristiani. Il tizio non si muove.

“No, non la scuso. Si accomodi, prima di farsi del male.”

 

II

L’uomo vorrebbe reagire, ma capisce di non avere alternative. Guarda la compagna di sventura e obbedisce. Le due sedie davanti a me sono occupate. L’ospite inatteso deve aver iniziato da poco a perdere i capelli. Il suo inutile taglio corto non nasconde la nascente pelata che si fa strada sul cranio. La barba incolta racconta qualcosa di lui; una finta trascuratezza, una sorta di: non me ne frega niente, io sono “cool”.

L’abbigliamento è troppo giovanile per i suoi trenta-trentacinque anni; sembra un adolescente televisivo anni ‘80. Carne troppo vecchia costretta in panni troppo stretti. Pantaloni con più tasche di quelli di un carpentiere, blue jeans invecchiati prima di essere consumati. Una polo rosso lampone e delle maniche lunghe bianche sino al polso, come se qualcuno avesse invertito l’ordine degli strati con cui coprirlo. Un costosissimo orologio di purissima plastica e una catenina con una fede appesa al collo che sembra strozzarlo ogni volta che respira.

Un giovane troppo vecchio.

Non mi aspettavo che si trasformasse in una cosa “a tre”. Avrei dovuto uccidere subito Vanessa.

Ho perso tempo, sono in ritardo.

“Lei aveva l’appuntamento cinque minuti fa, vero?”

“Si, ma l’avverto che…” non riesce a finire la frase perché gli avvicino la crea vedove alla faccia.

Sollevo il cane. “Crick” amo quel rumore metallico che gratta il silenzio; è la sinfonia della morte, così breve e intensa.

“Non dica nient’altro. Potrei sbagliare e spararle.”

Per lui è arrivato il tempo di impallidire ma non reagisce, il suo istinto di conservazione si è inceppato.

Devo pensare. Li guardo e cerco di concentrarmi; quel cervello che vedo spalmato sulla parete non esiste. Vorrei fosse vero, ma non è reale. Sento l’odore di cordite e carne bruciata.

Strizzo gli occhi e il cubicolo torna normale.

“Ho un problema – dico – volevo ucciderla, poi è entrato lei e ha rovinato tutto.”

La femmina scoppia a piangere; se fosse pioggia sarebbe novembre. Lacrime costanti in continuo aumento. Paura di morire in bassa pressione: ecco il bollettino barometrico di Vanessa.

La osservo e cerco di capire cosa prova. Vedo solo un sacco dell’immondizia che tira su con il naso. L’espressione tende all’angoscia. Una maschera muta che vira verso il dolore. Il trucco le si è sparso per tutta la faccia. Sembra un panda anoressico vestito da pagliaccio che sussurra qualcosa.

“Alza la voce!”

“Prenda lui e mi lasci andare” ripete.

Lacrima Vanessa abbassa il capo e fissa il pavimento. Con una mano si massaggia il gomito. La vergogna la fa sentire sporca.

Le donne ispirano gli artisti. Per un artista come me l’ispirazione è tutto.

Le idee semplici aprono epoche nuove.

La sorpresa alimenta i muscoli del maschio.

“Brutta troia. Sei tu che devi morire, non io” dice, ignorandomi.

Ha capito quanto le idee siano pericolose quando incontrano una mente fertile.

Questi due e la loro voglia di vivere valgono oro. La proposta di scambiare la vittima mi ha suggerito la soluzione; non sarò io a decidere chi muore per primo, ma loro due. Io uccido quello che sopravvive. Due gladiatori nel mio cubicolo.

Batto il calcio della .38 sulla scrivania. I due sussultano. Pensano sia partito un colpo.

Sorrido divertito.

“Signori, per favore manteniamo un contegno. Vanessa non è una troia e lei non sarà preso al posto di nessuno. Come si chiama?”

“Matteo Pracetti” risponde tutto d’un fiato.

Guardo oltre il bordo della scrivania e osservo la macchia scura sui pantaloni. Dalla tasca della camicia, con la mano sinistra, estraggo un pacchetto di fazzoletti e glielo lancio.

“Cosa me ne faccio?”

“Si asciughi e mi ascolti.”

“Vanessa ti presento Matteo. Matteo ti presento Vanessa.”

I due si guardano.

Matteo stende un fazzoletto tra le gambe. In pochi secondi è zuppo.

“Allora – dico appoggiandomi allo schienale – voi due dovrete lottare per la vostra salvezza. Chi dei due sopravviv…”

Vanessa si lancia sul collo di Matteo. Non gli lascia il tempo di reagire. Le unghiette rosa affondano nella pelle di lui che non rimane a guardare, ma le afferra i polsi cercando di liberarsi. Inizia a diventare rosso. Non capisco se per lo sforzo o per la mancanza d’aria.

Matteo sposta il baricentro all’indietro, rovescia la sedia trascinando verso il basso l’avversaria.

“Non fate rumore” dico e mi alzo in piedi.

Matteo scalcia come un mulo ed emette un ringhio appena udibile, mentre lei stringe i denti.

Tutto il vantaggio del gentil sesso scompare quando le sferra un pugno. La colpisce alla tempia, stordendola quanto basta. Quando parte il secondo pugno, Vanessa si copre la faccia con le mani.

I due si rimettono in piedi. Lei carica e lo spinge all’angolo.

Vanessa cerca il contatto per tenere lontano i pugni. Appena è vicina, adotta la tattica: vampiro amoroso.

I suoi denti pizzicano la parte destra del collo.

Matteo urla. Devo ammettere che ha una buona estensione vocale.

Il sangue inizia a circondare le labbra della donna, Il bacio è appassionato ma l’amato si stacca dalla sanguisuga, gettandola a terra. Si porta una mano al collo e inizia e ripetere “cazzo” sino a svuotare la parola di ogni significato.

Vanessa striscia all’indietro e sputa un pezzo di collo dell’altro. Il sangue e la saliva le colano sul mento. Si toglie una scarpa. La afferra puntando il tacco verso Matteo.

All’improvviso la porta si apre.

Il Dottor Bianchi Guido, laureatosi in economia nel lontano ottantatré, spalanca la porta. Scarpe marroni sotto un completo nero. Il prototipo dello stronzo a capo di una serie di sottoposti sfigati come me. Le scarpe non solo sono ridicole, ma sono un simbolo. Lui ama calpestare tutti quei vermi intrappolati nel fango; adora schiacciare sotto il tacco gli striscianti sottoposti con uno o più livelli in meno del suo. Sta per dire qualcosa, ma si trattiene. Alza lo sguardo. Nota il revolver nella mia mano. Aggrotta le sopracciglia e chiede: “Cosa sta succedendo?”

 

III

Sparo il primo colpo verso il Dottor Bianchi. Cade a terra. Non emette suono. La gente in attesa fuori dal cubicolo rimane allibita. La prima a urlare è una pensionata. Una pensionapunk con capelli sul violetto e pelle rugosa, non riesce a sollevarsi dalla poltrona. Una tartaruga costretta in un sobrio vestito “da bara”.

Matteo e Vanessa mi guardano allibiti.

Tutti gli altri scappano urlando. La vecchia arranca ancora senza visibili risultati.

Parte il secondo colpo. Centro l’anziana che gorgoglia e si affloscia.

Forse i due lottatori si sono spaventati. Matteo si è coperto la faccia con le braccia mentre Vanessa si protegge la testa tra le mani. Il tacco le affonda nei capelli.

Quando capiscono di essere vivi, mi guardano.

“Scusate l’interruzione. Continuate pure.”

Due colpi e due cadaveri. Non credevo di essere così bravo.

Riprendono la lotta, ma senza convinzione. Lei batte i pugni sul petto di lui, mentre l’abbraccio di Matteo sembra essere una pessima imitazione delle telenovelas argentine anni settanta, manca soltanto lo scontatissimo ti amo.

Vedo Matteo legato, appeso per la bocca a un gancio da macellaio. Si agita, tenta di liberarsi. Vuole parlare ma urla solo vocali. Vanessa adagiata a terra, tagliata in tanti pezzi, disposti secondo un ordine di grandezza.

I due sono distanti dalle mie fantasie.

Sparo Il terzo colpo che taglia l’aria tra i due e torno alla realtà.

“Non ci siamo capiti. Così mi fate morire di noia. Uno dei due deve ammazzare l’altro, capito? Metteteci più passione! Vanessa usa quel tacco e tu, Matteo, tira fuori la rabbia! Quei bicipiti non li hai solo per riempire le magliette. Dai ragazzi, c’è in palio la vita!”

Mi sembra di dovere motivare due attori su un set di un film porno.

“Lei non può obbligarci a fare questo” dice il gladiatore dei poveri.

Amo guardare i documentari alla tv. Mi piace sentire una voce calma di sottofondo a un omicidio che dice: eccoil predatore che afferra la preda. Elogio dell’omicidio a scopi educativi. Seguo anche quelli del canale 375 a carattere storico o sociologico. Esplosioni, caccia bombardieri e soldati americani in Vietnam, in Corea, in Francia, in Afghanistan, in Iraq, in Giappone.

Carestie, dittatori, profughi, violenza, cadaveri, cadaveri e ancora cadaveri.

Poi la voce calma: la guerra è l’igiene dei popoli.

Il quarto colpo trapassa la coscia di Matteo. La macchia scura dei suoi pantaloni si tinge di rosso. L’arteria pompa sangue fuori dal corpo. Matteo stringe la gamba e urla. Cerca di guadagnare l’uscita dal cubicolo, ma cade a terra poco distante dal fu Guido Bianchi dottore. Inizia a piangere.

Non doveva sfidarmi.

Mi volto verso Vanessa, sparo il quinto colpo che la spinge a terra. Sul fianco destro le sboccia uno piccolo fiore rosso.

“Non potevo avvantaggiarti” dico.

Giro intorno alla scrivania. Mi avvicino a Matteo per chiedergli cosa pensava di ottenere con la sua saggezza disperata.

Il suo petto è immobile. Ha smesso di respirare. Morto.

Vanessa preme la mano sulla ferita. Appena si accorge che la guardo, cerca di alzarsi.

Sirene poco distanti. La festa sta per finire.

Attendo, ma nessuna fantasia irrompe nel cubicolo. Strizzo gli occhi, ma nulla è cambiato. La realtà e deludente.

Mi avvicino, la aiuto ad alzarsi e le dico: “Vai pure, sei libera. Volevo uccidere chi fosse rimasto in vita, ma Matteo ha pensato bene di morire per così poco. Iniziavate ad annoiarmi. Vattene.”

La aiuto a scavalcare le carcasse dei due. Usciti dal cubicolo, la spingo via. Zoppica con la gamba destra. Piccole gocce di sangue segnano il suo passaggio.

Sono le sue bricioline per ritrovare la strada se vuole farsi ammazzare.

Mi avvicino alle finestre e vedo arrivare la prima volante della Polizia. Scendono due poliziotti.

In strada tutti mi stanno guardando.

L’anziana sgonfia è proprio a terra.

“Ha visto signora? Peccato che non possa raccontarlo alle amiche.”

Saluto i passanti in strada.

 

IV

Non si sentono più sirene e, purtroppo, Vanessa non è tornata. Una calma irreale è scesa nel palazzo. Il rumore del traffico è cessato. Il ticchettio della lancetta dei secondi scandisce il tempo. La ventola del personal computer ruggisce a intervalli discontinui. Sono seduto alla scrivania.

SONO PASSATI DIECI MINUTI.

Screensavers aziendali. Servono a ricordarti di non perdere tempo.

Muovo il mouse. Il cursore lampeggia nella casella “Note spese e investimenti aziendali”. Schiaccio la X rossa in alto a destra. Una casella mi avvisa che le modifiche andranno perse. Schiaccio OK. Mi chiede se sono sicuro. Sì, sono sicuro.

Appare l’isola tropicale.

Quel luogo non esiste.

Mi sento libero.

Sono stanco.

Chiudo gli occhi.

 

V

“Alzati lentamente con le mani in vista!”

Sono quattro poliziotti. Uno di quelli, ma non riesco a capire quale, parla come gli sbirri della tv. Giubbotto antiproiettile. Pistole spianate, avanzano piano verso di me.

Ripeto le parole di Albert Camus.

Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.

Con la mano armata miro un punto a caso del corridoio. I tutori dell’ordine si irrigidiscono.

Sparare o non sparare?penso.

Vale la pena vivere?

Sì, se muoio solo io non posso ammazzarne altri e un colpo solo, quello che mi è rimasto, non basta per uccidere tutto il mondo.

Peccato.

Mi alzo e lascio cadere la pistola.

Appena stacco le mani dalla sei colpi, mi piombano addosso senza dimenticarsi di farmi male, molto male.

Un poliziotto, la versione small dell’incredibile Hulk in tinta blu, mi ammanetta.

“Sei in arresto!” dice.

Rispondo: “Io lavoro solo su appuntamento.”


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